Il mancato raggiungimento dell’unanimità per il nuovo patto di bilancio e un rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche (Consiglio europeo del 9 dicembre scorso) ha posto un ostacolo nel già difficile percorso dell’Ue. Non una mera questione tecnica (le nuove regole avranno infatti la natura di un accordo internazionale tra ventisei paesi membri), quanto un problema politico: il rapporto tra Regno Unito e Ue.



Se la recente presa di posizione di David Cameron si può legare alla scelta di Tony Blair di restare fuori dall’area euro, una questione più semplice ci darà la misura dell’armonia tra Londra e le altre ventisei capitali: quanto pagare per il finanziamento dell’Ue, ovvero per le sue politiche e la sua amministrazione. La questione si è riaperta qualche mese fa, quando la Commissione ha proposto il nuovo quadro finanziario pluriennale per il periodo 2014-2020. Si tratta del documento che fissa gli importi dei massimali annui di impegni e pagamenti per categoria di spesa (per esempio, coesione, agricoltura, ricerca, ecc.) e, di conseguenza, le fonti di finanziamento.



Se si considerano i crescenti obiettivi che i paesi membri hanno attribuito all’Ue, trattato dopo trattato, il bilancio non è cresciuto di pari passo: siamo circa all’1% del Pil dei 27 Paesi. Nel 2011, tale importo è finanziato per l’86% dalle risorse dei paesi membri: 11% da gettito Iva e ben il 75% da contribuzioni nazionali in funzione del Pil di ciascuno dei 27. Essendo l’Ue un club nel quale si entra e si partecipa con pari dignità, sarebbe buona regola che ognuno lo finanziasse in percentuale, secondo le proprie disponibilità. E in effetti Margaret Thatcher era riuscita ad affermare il principio che il contributo di ogni Stato membro al bilancio deve sicuramente tener conto del grado di ricchezza relativa rispetto agli altri membri; ma contemporaneamente bisogna considerare anche il beneficio netto che ciascuno Stato riesce a ottenere dall’Ue.



E nel 1984, anno in cui il Consiglio europeo ha deciso di far pagare meno il Regno Unito, relativamente agli altri nove paesi membri, il Pil procapite britannico era il 93% della media europea (il 97% di quello italiano) e il budget europeo andava per il 69% alla Politica agricola comune: la prima politica veramente comunitaria che finanziava la produzione e la multifunzionalità della vita in campagna per la quale il beneficio inglese sarebbe stato minimo.

Questo sconto speciale per il Regno Unito è rimasto in vigore nel tempo, ma la motivazione non sembra essere più valida. La spesa per l’agricoltura è diminuita nel tempo e nel 2011 pesa per il 41,3%. Inoltre, la ricchezza per britannico è pari al 111% della media Ue. Se, per esempio, confrontiamo questi dati con quelli italiani vediamo che, fatto 100 il nostro Pil pro capite e il nostro contributo al bilancio dell’Ue, nel 2011 il Regno Unito ha contribuito l’11% in meno nonostante fosse il 19% più ricco (come si vede nel grafico più in basso). Valori che delineano una divergenza preoccupante se prendiamo gli stessi dati per il 2005.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Governo Cameron si è ovviamente opposto a una revisione di questo sconto speciale proposta dalla Commissione. Tuttavia, si tratterebbe di un’altra carta sul tavolo delle negoziazioni per il rientro del Regno Unito nell’Ue del futuro dopo la recente rottura di Bruxelles.