È in corso in Europa una “stretta del credito” che “strozza soprattutto le Pmi” e per questo serve “riparare il circuito del credito che ora non circola”. E questo è senz’altro un compito che spetta alle banche centrali che, da buoni idraulici, già si sono messe all’opera per rimediare alle falle del sistema che impedisce il flusso della liquidità. Ma il pronto intervento (comunque costoso, roba da idraulico chiamato d’urgenza la domenica di Natale…) ha un effetto temporaneo, se il condominio Europa non fa finalmente quei lavori, vedi le riforme, da lungo tempo necessarie. Ovvero, come il presidente della Bce, Mario Draghi, ha ripetuto davanti al Parlamento europeo, “i governi devono recuperare credibilità”. Altrimenti la diga eretta dalla Bce, “l’ultimo baluardo dell’Unione monetaria non terrà a lungo”.
I banchieri centrali, insomma, possono far la parte del fanciullo olandese che, narra la leggenda, con il dito incastrato nella crepa della diga, ha retto per ore alla pressione delle acque in attesa dei rinforzi. Ma se non arriverà il “fiscal compact”, cioè il “Patto di bilancio” che completi con regole e impegni di politica di bilancio comune agli Stati la politica monetaria condotta dalla Bce, continuerà la pressione sui mercati “con ricadute molto avverse su fiducia e finanza”. E la diga potrebbe crollare, con danni irreversibili. Come ha già detto l’altro super Mario, il premier Monti, stiamo correndo “rischi enormi” che non ammettono indugi.
Ma sarà vero? Ovvero, come sospettano in molti, siamo di fronte a una forzatura per far digerire pillole amare? La prima, naturalmente, riguarda la mitica quota 40, ovvero gli anni di contribuzione necessari per accedere alla pensione. Poi, una volta infranta questa linea Maginot che tiene unita Susanna Camusso ai falchi della Fiom, toccherà al tabù del centrodestra: l’imposta sui patrimoni, più o meno camuffata da super Ici. E chissà che altro ancora. Insomma, nell’immaginario collettivo fa capolino il sospetto che il governo dei tecnici sia un’imposizione dall’esterno per domare l’“eccezione italiana”, a partire dal rituale per cui le scelte di politica economica vanno condivise da una sterminata platea di parti sociali (vi ricordate quei tavoloni immensi a palazzo Chigi?) e di corporazioni. Oltre che accettate da una Pubblica amministrazione che dispone di infiniti strumenti di veto.
In realtà, le cose stanno davvero messe male. Forse peggio di quel che non vogliono raccontare i due super Mario. La crisi di fiducia nei confronti dell’euro, partita ad aprile, ha progressivamente preso velocità investendo come un cancro fulminante il sistema bancario, il polmone dell’economia. Qualche numero: a fine 2010, il totale dei prestiti erogati dal sistema italiano ammontava a 2.600 miliardi circa. Di questa cifra, 400 miliardi circa facevano capo a prestatori esteri; compagnie di assicurazione, fondi pensione, multinazionali e così via. Inoltre, si calcola che i non residenti avessero sottoscritto tra il 5% e il 10% degli 857 miliardi di obbligazioni bancarie in circolazione. Insomma, circa il 20% degli impieghi dipendeva da prestiti internazionali. Una caratteristica ancor più accentuata in Francia e in Spagna, ma anche in altri paesi di Eurolandia, che è strutturalmente deficitaria su questo terreno.
Ma che è successo? Il primo segnale l’ha lanciato, in primavera, Siemens. Il gruppo tedesco, dopo aver ottenuto lo status di banca, ha avuto facoltà di parcheggiare la propria liquidità direttamente presso la Bce, cosa che ha fatto ritirando i propri depositi dalle banche francesi (500 milioni circa). Intanto, i gestori dei fondi Usa, da Pimco a Blackrock, al pari di Deutsche Bank, hanno fatto lo stesso: fuori da Eurolandia, prima dai titoli di Stato, poi dall’euro. Il risultato è stata la fuga dei quattrini verso altri lidi, anche la stessa Gran Bretagna che oggi vanta tassi più bassi della Germania. Per non parlare del T bond Usa, of course.
Negli ultimi giorni, prima dell’intervento delle banche centrali per fornire di dollari Usa a tassi assai modesti le banche europee, il fenomeno ha preso velocità: 1) tutte le grandi multinazionali hanno ridotto al minimo i depositi nella moneta comune (lo stesso Sergio Marchionne, a domanda diretta, ha riconosciuto che “la Fiat deve esser pronta ad affrontare qualsiasi scenario”); 2) la fuga si è estesa ai compratori asiatici; 3) il mercato interbancario è letteralmente scomparso, l’unico polmone di liquidità è la Bce. All’istituto di Francoforte, in queste settimane, le banche italiane hanno fatto ricorso per circa 130-140 miliardi. La cifra corrisponde al deflusso dai conti correnti dei depositi delle grandi società e dei grandi fondi. Un salasso a lungo andare insostenibile: i depositi bancari italiani ammontano a 1.374 miliardi, difficile che possano sostituire i capitali defluiti dal sistema. Ancor più difficile che il sistema bancario, che raccoglie depositi a vista per impiegarli a più lungo termine, possa sostenere nel tempo il fenomeno (forse le cose stanno peggio in Spagna, non meglio in Francia).
Il risultato? Si genera una crisi di liquidità, che è la cosa peggiore che possa succedere, perché un’azienda non fallisce per un buco nel patrimonio (salvo casi criminali e truffaldini), ma per un buco nella liquidità. Non a caso sir Walter Bagehot, mitico governatore della Bank of England (e fondatore del The Economist) scolpì nella pietra il comandamento cui devono attenersi i banchieri centrali: “Fornire sempre tutta la liquidità necessaria a qualsiasi costo”. È quello che Mario Draghi, assieme a Ben Bernanke, sta facendo nell’attesa che i governi, anzi gli Stati europei dimostrino, dopo gli indecenti ritadi sulle decisioni per la Grecia e 16 vertici in 14 mesi che non hanno partorito nemmeno un topolino, di voler pagare per la credibilità dell’euro.
No, né Draghi, né Monti stanno bluffando. La medicina sarà amara, non solo per la politica (pensiamo alle corporazioni, ma anche ai privilegi che attraversano la sanità o la magistratura). Ma la dieta, si sa, può far bene se ragionata e con un obiettivo da raggiungere. Altrimenti è solo fame e privazione.