Da mesi, ormai, siamo immersi in un clima di emergenza, bersagliati da una grandine di notizie che spesso, a torto o a ragione, annunciano catastrofi imminenti. Molti temi e termini propri degli addetti ai lavori sono entrati con irruenza nel nostro quotidiano e la vita di tutti i giorni ci interroga sui cambiamenti in atto. In questo, è il caso di dirlo, la crisi è tornata alla sua etimologia greca di krinein, cioè decidere, giudicare.
Le righe che seguono collegano eventi tra loro distanti, prendono spunto dalla cronaca delle ultime settimane per tentare una fotografia di quanto sta accadendo: i grandi mutamenti globali, gli imprevisti e gli avvenimenti di cui siamo testimoni e, talvolta, protagonisti. È il resoconto in puntate di come dollaro, euro e yuan si siano affrontati in una guerra commerciale. La guerra delle tre monete.
Tutto è cominciato con la svalutazione artificiale dello yuan. La valuta cinese è rimasta invariata dal ‘98 fino all’estate del 2005. Nello stesso periodo le esportazioni del dragone sono cresciute in media del 23% annuo e la bilancia dei pagamenti ha marcato un saldo positivo medio di trentotto miliardi e mezzo di dollari l’anno. Un tale ritmo di crescita conduce inevitabilmente a un apprezzamento della moneta locale sul dollaro. Ma non per la valuta del dragone: il tasso di cambio tra yuan e biglietto verde resta invariato per ben sette anni. Il trucco c’è e si vede benissimo: la Cina esporta in dollari, principalmente verso gli Stati Uniti, e reinveste i proventi nel debito pubblico a stelle strisce, lasciando invariato il cambio.
Sull’altra sponda del Pacifico, l’America consuma più di quanto possa permettersi, creando deficit e quindi spazio per altri investimenti cinesi nelle finanze pubbliche di Washington. I tentativi di rompere questo disequilibrio attraverso una svalutazione del dollaro falliscono puntualmente: Pechino utilizza le riserve valutarie per annullare ogni manovra monetaria della Federal Reserve. E Washington finisce per accettare la sfida scellerata: niente svalutazione del debito pubblico, niente freno alla spesa ed estenuante ricerca di profitti per ripagare i passivi.
E l’euro? Mentre tra le due sponde del Pacifico si affilano le lame, dalle parti di Bruxelles cova un’ambizione balzana: diventare la principale moneta globale. Dall’entrata in vigore dell’euro al 2005 il cambio con il dollaro passa da 0,8255 a 1,3637 con un apprezzamento pari al 65%. Nello stesso periodo, il 15% delle transazioni mondiali cambia valuta di riferimento, abbandonando il dollaro per adottare l’euro.
Ma c’è un problema, anzi due. Che le due monete non siano interscambiabili non è un mistero: mentre la popolazione dell’eurozona è approssimabile a quella degli Usa, l’economia a stelle e strisce è più solida e la sua struttura federale più omogenea. Un esempio su tutti: al suo ingresso nell’eurozona, la Grecia ha già i conti sballati. A garantirle l’accesso è un’operazione di “cosmesi contabile” sulle finanze pubbliche che porta la firma di Goldman Sachs (un currency swap a tassi artificialmente alti firmato a inizio 2002). A complicare la situazione ci si mette la rappresentanza di uno dei settori più strategici sul pianeta. Le voci di un possibile abbandono del dollaro da parte dell’Opec si moltiplicano, mentre Iraq, Iran e Venezuela minacciano di convertire le proprie riserve monetarie in euro.
Il secondo problema è che anche il dragone punta gli occhi sul settore energetico. Dal ‘98 al 2005 gli scambi commerciali tra Cina e continente africano passano da cinque a quaranta miliardi di dollari e in pochi anni le importazioni dall’Africa arrivano a coprire un quarto del fabbisogno petrolifero cinese. In particolare, l’Economist stima che la Cina abbia impiegato nell’africa subsahariana circa il 14% dei propri investimenti all’estero (più di quanto investito in Europa). Secondo fonti ufficiali di Pechino, in portafoglio ci sono principalmente pozzi petroliferi e infrastrutture (oleodotti, strade, ferrovie e porti). Tra i pozzi vale la pena ricordare lo sfruttamento di due importanti siti sul delta del Niger (Nigeria), tre impianti in Gabon e i quindici miliardi di dollari investiti in Sudan in cambio del 60% del greggio estratto in loco. Nel 2001 gli impegni internazionali sono premiati: l’11 dicembre la Cina è ammessa nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
La risposta all’intraprendenza di Europa e Cina non si fa attendere: a cavallo del 2000 la Federal Reserve abbassa il tasso d’interesse per undici volte consecutive, passando dal 6,5% all’1,75%. Alla continua ricerca di rendimenti, Wall Street inaugura una nuova stagione di finanza iper-sofisticata; prendendo in considerazione i soli, famigerati, subprimes, dal 2002 al 2006 sulla piazza finanziaria americana sono emessi titoli ad alto rischio per un importo pari a 600 miliardi di dollari. Allargando il perimetro, il volume di derivati emessi dal 2001 al 2006 passa da 100mila a 400mila miliardi di dollari.
Nel 2003 Alan Greenspan, presidente della Fed, decide un ulteriore taglio dei tassi, raschiando il minimo storico dell’1%. Non tutti condividono questa strategia “rischia-tutto”: dal 2002 nel board della Fed siede l’ex capo dipartimento di economia politica presso l’università di Princeton. Il suo nome è Ben Bernanke e, come vedremo nella prossima puntata, la storia ha in serbo per lui (e per tutti noi) più di una sorpresa.
(1 – continua)