A che punto siamo della crisi? La stangatona Monti riuscirà a riportare la fiducia sull’Italia? L’apertura di credito della Bce alle banche con prestiti illimitati per 36 mesi all’un per cento, sarà in grado di sbloccare il circuito? Entro aprile dobbiamo collocare titoli pubblici per oltre 200 miliardi di euro, il Tesoro italiano riuscirà ad ottenere rendimenti sostenibili, cioè inferiori al 5 per cento? Tante domande inquietano questo mesto Natale in cui per la prima volta dal 2008, la crisi comincia a farsi davvero sentire nella vita degli italiani. Più tasse, meno pensioni, si lavora di più e si guadagna di meno. L’equazione del rigore è semplice e drammatica allo stesso tempo. E mentre l’attenzione dell’opinione pubblica è sui costi quotidiani della nuova austerità, la crisi decompone assetti finanziari consolidati, disfa alleanze, cerca nuovi equilibri. Ma cominciamo dalle domande più ansiogene.



L’economista Daniel Gros si chiede se l’Italia può sopravvivere alla tempesta finanziaria. La sua risposta è piena di speranza soprattutto perché attribuisce efficacia alla medicina Monti, la quale intacca alcuni focolai dell’infezione nazionale: l’eccesso di spesa pubblica corrente, cominciando dalle pensioni. Proprio la durezza dell’intervento su questa voce cruciale, ha dato l’impressione in Europa e nella stessa Germania che il governo fa sul serio e il paese ingoia il rospo, sia pur lacrimando. Si possono e si debbono rimproverare molte cose ai tedeschi e alla cancelliera Merkel, ma non che richieda una prova di serietà, quella stessa che è mancata nel caso della Grecia.



Certo, la manovra è sbilanciata dal lato delle imposte, tuttavia per recuperare soldi subito non c’è via più diretta che tosare i contribuenti. Resta l’incognita sulla crescita, ma i mercati ragionano in tempi brevi. Primum vivere, anzi sopravvivere. Hanno lo sguardo corto, sono fatti così: chi investe i propri quattrini vuole comprare merce buona e non avariata.

Diciamo, dunque, che passeremo la nottata, sperando che nuovi eventi improvvisi non turbino l’instabile equilibrio (cosa accadrà sui mercati nel momento in cui Francia e Germania perderanno la tripla A?). Poi dovremo attraversare l’inverno del nostro scontento e prepararci al crudele aprile in cui arriva il momento della verità. Se le aste dei titoli di stato andranno bene, allora si potrà avviare l’operazione crescita, se no verrà un’altra mazzata. E a quel punto davvero reciteremo anche noi la tragedia greca.



Per la seconda fase, il passaggio più doloroso riguarda la riforma del lavoro, cioè, per evitare eufemismi, la maggior libertà nei licenziamenti. Lo chiede l’Unione europea, lo chiede la Bce, è un’altra prova che facciamo sul serio. Non solo: inutile negare che è una esigenza nazionale, non una imposizione da parte dei mostruosi gnomi della City. Da trent’anni le grandi imprese hanno cacciato lavoratori e l’industria si è disintegrata anche per sfuggire all’art. 18 (la giusta causa non riguarda le imprese sotto i 15 dipendenti). Naturalmente, non si può fare come con le pensioni, non si può solo prendere, bisogna dare in cambio un nuovo sistema per assicurare i periodi di disoccupazione e un aumento dei salari schiacciati verso il basso fin dal patto Ciampi del 1994. Difficile, ma inevitabile. La Confindustria se ne deve render conto, tanto più che, dopo la rottura di Marchionne, la contrattazione è sempre più aziendale.

Un’importanza chiave avrà il salvataggio del sistema creditizio operato per ora dalla Bce e poi, se le cose non cambiano, con il concorso indiretto del governo nazionale. Le banche debbono aumentare il capitale, il loro valore borsistico è crollato, la crisi ha schiacciato i bilanci. Non tutte sopravviveranno, poche resteranno come prima, con conseguenze importanti nella mappa del potere economico.

La banca universale è in crisi, ha spiegato Federico Ghizzoni, l’ad di Unicredit, la più universale delle banche italiane. Quindi, si avvia un processo di nuova specializzazione, con disaggregazioni, scorpori, chiusure. Gli intrecci che legano banche, industrie, giornali, per lo più attraverso Mediobanca, sono destinati anch’essi a sciogliersi. Ci vorrà tempo, si dice sempre, ma non c’è più tempo, la crisi ha bruciato i ponti. E chissà se dalla fine del vecchio capitalismo senza capitali, e perciò sempre protetto, non nascerà un assetto migliore?

E’ un tema che ci conduce lontano, forse troppo, da questo rapido sguardo appena di là dell’Epifania. Ma il 2012 sarà in ogni caso un anno di svolta, l’Italia dovrà cambiare a tutti i livelli, dalla stiva alla plancia di comando, dall’economia alla politica. Nessuno viene ad aprire una fabbrica da noi. Vogliamo domandarci perché? Pochi imprenditori italiani conquistano posizioni di rilievo all’estero. Vogliamo capire perché e fare qualcosa subito?

A quel punto avremo tutti gli attributi per chiedere alla Germania di mutare linea e alla Bce di issare una palizzata insuperabile attorno all’euro. Il fiscal compact non vuol dire che tutti seguono la politica fiscale tedesca, ma che i paesi in surplus debbono allentare il rigore per favorire quelli in deficit. Altrimenti, l’unione non ha senso. A la guerre comme à la guerre (diplomatica ed economica)? Chissà, ma non con i carri armati di cartone come ai tempi di Mussolini.

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