In queste ore le migliori menti tra i fiscalisti americani stanno studiando l’architettura del grande affare di fine anno: Yahoo! intende cedere, per la non disprezzabile cifra di 17 miliardi di dollari, le partecipazioni di minoranza controllate in Alibaba, il “cugino” di Cina, e in Softbank, altro gigante on line, stavolta in Giappone. Quanto incasserà il fisco Usa da quest’operazione ad altissimo guadagno, se si tiene conto che le due partecipazioni sono state acquisite quando i giganti Internet erano poco più di start up? Zero dollari. La cessione, infatti, avverrà attraverso una catena di complicati passaggi che stanno mettendo a dura prova gli studi in Giappone, Cina e, soprattutto, Usa: le società asiatiche fonderanno una nuova società in cui verseranno il controvalore in yen e yuan dell’operazione. In epoca successiva Yahoo! conferirà i titoli che verrano poi spostati presso un altro veicolo. E i quattrini, invece, resteranno a disposizione di Yahoo! in un qualche atollo del Pacifico o dei Caraibi che meriti l’etichetta di paradiso fiscale.
Scusate l’imprecisione del racconto: il meccanismo sarà senz’altro più sofisticato, a prova di fisco. Così come le regole che difendono l’enorme tesoretto “cash” in mano a Microsoft: più di 50 miliardi di dollari domiciliati a Dublino, lontano dalla scure del fisco Usa. Quando, pochi mesi fa, il colosso di Redmond ha acquisito il controllo di Skype, altro gioiello della new economy, il tragitto dei dollari è stato abbastanza breve: dall’Irlanda al Lussemburgo, sede legale di Skype. Il fisco, anche in quel caso, ha visto le briciole. E lo stesso accadrà nel caso dell’eventuale cessione di Rim, la casa produttrice del Blackberry, o Microsoft e Nokia. O ad Amazon, nel caso venisse scelto il colosso delle vendite a distanza di Jeff Bezos, nel mirino in Germania per l’uso disinvolto degli incentivi contro la disoccupazione: Amazon assume giovani come magazzinieri per i suoi depositi a termine, sfruttando i sussidi dei governi regionali, salvo poi licenziare e riassumere gli stessi addetti a distanza di tre mesi.
Basta leggere un quotidiano qualsiasi per raccogliere, nel giro di pochi giorni, esempi di questo genere. Salvo poi fare i conti con il salasso del potere d’acquisto dei salari di quella che fu la classe media italiana. Il Bel Paese, dicono le statistiche, si colloca al 22esimo posto su 34 nella classifica dei salari netti: 25.155 dollari (19.350 euro). Mille euro in meno della media Ocse e quasi 4 mila in meno della media dell’Ue a 15. Vero, ma non si creda che la situazione internazionale sia tanto diversa, al di là delle statistiche. Una recente indagine del Financial Times ha appena rivelato che, se la quota versata in salari rispetto al Pil negli Usa fosse la stessa del dopoguerra, i lavoratori avrebbero ricevuto nel 2011 la bellezza di 740 miliardi di dollari in più, ovvero 5 mila dollari in busta paga a testa.
Nel corso degli ultimi dieci anni, insomma, c’è stato negli Stati Uniti uno spostamento a favore del capitale rispetto al lavoro di 5 punti percentuali. In Europa occidentale, Italia in particolare, la situazione è diversa: una parte della forza lavoro, la più garantita e, in contemporanea, la meno dipendente dalla concorrenza (vedi Pubblica amministrazione) ha senz’altro difeso meglio il suo potere d’acquisto. Ma l’emergere dell’economia nera o sottopagata, non solo in Italia ma anche in Germania (dove non mancano i mestieri retribuiti 5 euro all’ora, come a Barletta) è servita ad abbassare la media del costo del lavoro effettivo. Quello che non è protetto dall’articolo 18, per intenderci, ultima versione dell’ipocrisia nostrana a danno dei nuovi e vecchi sfruttati (contrattisti senza garanzie, cinquantenni messi alla porta, giovani senza alcun potere contrattuale).
Fa una certa impressione mettere a confronto la ricchezza esentasse dei pochi privilegiati (non solo in Usa, pensate al collocamento delle azioni Prada, società di diritto olandese, alla Borsa di Hong Kong, Paradiso fiscale impenetrabile…) rispetto alla povertà progressiva di quelli che futrono colletti bianchi o blu. Colpa della crisi, verrebbe da pensare. A torto. In passato, basti pensare alle recessioni anni Settanta, la vittima delle crisi era il profitto, mentre il lavoro era in parte protetto da meccanismi di indicizzazione dei salari o dalla forza sul posto di lavoro. L’uscita dalla recessione, anzi, coincideva con nuove assunzioni e nuovi investimenti per conquistare con nuovi prodotti quote di merctao. Oggi, al contrario, la recessione non ha intaccato in molti casi i profitti (è il caso della tecnologia, ma anche delle aziende che esportano). Al contrario sta pesando in maniera rilevante sui portafogli.
Le ragioni? a) La globalizzazione, che ha offerto forza lavoro a basso costo e possibilità di mobilità assoluta dei capitali a caccia delle condizioni migliori; b) La tecnologia, che ha spiazzato la forza lavoro più matura; c) La debolezza sindacale, in parallelo al tramonto delle grandi fabbriche o degli uffici centralizzati.
A queste cause, senz’altro valide, se ne può aggiungere una quarta, valida per il mondo anglosassone (ma non solo): l’obiettivo delle corporations, sostiene il consulente aziendale inglese Jonathan Smucker, si è progressivamente spostato verso la “creazione di valore” a vantaggio del top management. I bonus, le stock options, altre forme di remunerazione si sono ormai orientate a creare vantaggi solo per la punta della piramide, che può contare su facili e legali (ma anche illegali) forme di riciclaggio della propria ricchezza. Intanto, l’impotenza della politica ha consentito la creazione di circuiti fiscali un tempo inimmaginabili. Difficile che l’America dei Kennedy piuttosto che la Francia di De Gaulle avrebbero tollerato a cuor leggero le situazioni ormai quotidiane di elusione del dovere fiscale.
Nell’America del dopoguerra, il Ceo di General Motors poteva dichiarare con orgoglio al Congresso che “ciò che va bene per Gm va bene per l’America”. In un certo senso aveva ragione: i profitti di Detroit generavano assistenza sanitaria e previdenziale, ricchezza diffusa e maggior istruzione. Non vale la stessa regola per Apple, che impiega poche migliaia di dipendenti ad alto reddito, centiania di migliaia di lavoratori a basso costo in Cina e “dribbla” senza alcuna difficoltà il fisco Usa lasciando i profitti fuori dai confini. Così come fa Microsoft, Google o Coca-Cola e Mc Donald’s.
La ripresa della politica vera consiste nell’invertire questa ruota perversa, prima che come un boomerang colpisca lo stesso capitalismo: un popolo di consumatori più poveri e frustrati è una minaccia soprattutto per chi ha bisogno di mercati cui vendere automobili, abiti o smartphone.