Possiamo uscire dalla crisi? In questi giorni, ho avuto l’opportunità di confrontarmi con colleghi del mondo accademico giapponese (l’Impero nipponico è afflitto dal male oscuro della stagnazione da dieci anni). Credo che continueremo ad avvitarci su noi stessi se non riusciremo ad adottare queste misure:

1) Un tasso di cambio che meglio dell’attuale rifletta sia la parità interna di potere d’acquisto, sia la scarsità di valuta di un Paese che da anni ha un disavanzo della partite correnti pari al 4% del Pil. La rinegoziazione dei trattati dell’eurozona rappresenta l’occasione per tentare di giungere a questo obiettivo. Abbiamo un cambio sovrapprezzato a ragione di un serio errore tecnico commesso nel novembre 1989 quando decidemmo di rimuovere gli ultimi controlli valutari e di entrare contemporaneamente nella “fascia stretta” di quello che allora era l’accordo dei cambi europei (giornalisticamente chiamato Sme). Da allora un cambio sovrapprezzato è una palla di piombo al piede dell’economia italiana.



2) Una riduzione della pressione tributaria-contributiva che sta toccando il 54% del Pil e pesa principalmente sul costo del lavoro. Da un lato scoraggia l’imprenditorialità. Da un altro implica un forte divario tra costo del lavoro per l’azienda e salario netto in busta paga, comprimendo i consumi (e portandoli per molte fasce sociali al livello della sopravvivenza). Ciò frena sia offerta che domanda.



3) Un “big bang” di liberalizzazioni in modo che le strategie protezionistiche delle varie lobby si elidano a vicenda e incentivando la concorrenza si giunga a una riduzione della “mano morta” nei costi di produzione e di distribuzione.

4) Un’efficace politica per promuovere la digitalizzazione dell’economia e migliorare le infrastrutture. Abbiamo un marcato ritardo in materia di “banda larga” che incide negativamente (1-2% del Pil) sui costi di produzione. Lo sole carenze della logistica costano al Paese 40 miliardi di euro l’anno. La Pubblica amministrazione dovrebbe avere una funzione di leadership in questi campi.



5) Una politica per la famiglia. Senza un profilo demografico più giovane, l’Italia avrà crescenti difficoltà a innovare, a migliorare produzione e consumi, a trovare uno sprint dinamico.

6) Una riduzione del peso del debito pubblico tramite una politica di riscatto, a tassi più bassi di quelli di mercato, attuato per mezzo di un fondo ad hoc garantito dal patrimonio immobiliare e dalle grande imprese pubbliche.

Le stime econometriche sul potenziale di crescita dell’economia italiana sono e resteranno deludenti se non si agirà su queste leve. In breve, la Banca centrale europea, la Commissione europea e il Fondo monetario internazionale pongono attorno all’1,3% l’anno il “potenziale” di crescita dell’economia italiana. Dato che altri lavori – specialmente quelli di Kenneth Rogoff – affermano che il fardello del debito comporta una frenata di un punto percentuale l’anno, il “potenziale” di crescita diventa un misero 0,3% l’anno – una stagnazione che può diventare recessione alla prima tensione internazionale. Per il 2012, il Fmi stima una contrazione del Pil dell’1,6%. Le mie stime la pongono sul 2,5-3% . Con evidenti tensioni politiche e sociali.

Può un Governo “tecnico” come l’attuale prendere le misure necessarie? La risposta può essere positiva a queste condizioni:

1) Restare “tecnico”, ossia non entrare in mediazioni con parti sociali e gruppi parlamentari. Presentare il proprio programma chiarendo senza mezzi termini che se non è approvato ripassa la palla ai politici. Le mediazioni lo fanno diventare un Governo fragile, gli fanno perdere autorevolezza interna e internazionale e gli rendono impossibile il negoziato più difficile – quello sul “prezzo dei prezzi”, ossia il cambio.

2) Attuare un big bang di liberalizzazioni che rilanci competitività e produttività e permetta una riduzione e un riassetto della pressione tributaria.

3) Promuovere digitalizzazione e ammodernamento delle infrastrutture.

4) Definire e attuare un’efficace politica della famiglia tale da incidere nel medio periodo sulla struttura demografica del Paese.

Quali le prospettive alternative? Un declino peggiore di quello giapponese per tre motivi: a) il Sol Levante ha mantenuto la propria sovranità monetaria e utilizza il cambio per sostenere l’economia oppure per impedire che stagnazione scivoli in recessione; b) nonostante l’alto debito pubblico e la rete di protezionismi interni, il Giappone ha un parco di infrastrutture moderno e dinamico; c) nelle isole nipponiche c’è una forte coesione sociale e una fortissima etica del lavoro e del sacrificio.