Eurozona? Usa? No, il 2012 potrebbe essere l’anno del Giappone. E non per ragioni positive. Già, perché tra panico da spread e ansia da aste di fine anno (sentimenti più che giustificati come dico da settimane, sia chiaro), rischia di passare in sordina una decisione che potrebbe cambiare gli equilibri finanziari ma anche geopolitici mondiali, innescando una potenziale guerra commerciale e valutaria. Cina e Giappone, infatti, hanno deciso di promuovere e denominare i loro commerci bilaterali nelle rispettive monete nazionali, yen e yuan, abbandonando il dollaro come valuta franca per circa il 60% di queste operazioni. Inoltre, il Giappone comprerà titoli cinesi, come mezzo per investire i renminbi (la moneta cinese interna, non usata a livello internazionale) che escono dalla Cina durante le transazioni.
Una mossa dettata in buona parte dalla preoccupante fase di fragilità del dollaro e dell’euro che spinge Pechino ad acquisire un ruolo di maggiore rilevanza sullo scenario mondiale per rispondere all’esigenza, più volte manifestata dalle altre grandi economie emergenti, di un generale riposizionamento fra le maggiori valute, il famoso paniere di keynesiana memoria che è costato molto caro all’ex capo del Fmi, Dominique Strauss-Kahn, almeno stando alla vulgata più comune tra chi accredita la tesi del complotto nei suoi confronti.
D’altronde, la Cina è il più grosso partner commerciale per il Giappone, con scambi per 26,5 trilioni di yen (3340 miliardi di dollari), più che triplicati rispetto a dieci anni fa, anche se nell’ultimo anno l’export verso Pechino è calato di un netto 7,7% (più del dato complessivo di calo delle esportazioni, al 4,5%), mentre le importazioni sono cresciute del 6,6%, ponendo fine allo storico surplus commerciale nipponico rispetto alla Cina. Un qualcosa che attiva il segnalatore di emergenza rispetto a questo patto, visto che surplus commerciali e alti risparmi dei cittadini sono sempre stati le due leve dell’economia giapponese e ora sono entrambi collassati, il primo a quota 2,2 triliardi di yen (29 miliardi di dollari) di deficit commerciale nel 2011 e il secondo terminato nella classifica a una cifra.
Cosa significa, quindi, tutto questo? Sostanzialmente che dall’anno prossimo, Giappone e Cina avranno meno bisogno di riserve in dollari per fare funzionare il loro commercio e questo implicherà una platea meno vasta per gli Usa su cui scaricare, attraverso l’inflazione, le loro politiche espansive – un terzo round di quantitative easing è atteso tra giugno e luglio – necessarie per far fronte alle spese federali. Un qualcosa che, paradossalmente, ha implicazioni più geopolitiche e strategiche che meramente commerciali. Se da un lato, infatti, Tokyo ha bisogno di rinsaldare i rapporti con Pechino anche in chiave di vigilanza sulla nuova Corea del Nord, dall’altro gli Usa vedranno seriamente minato il loro cosiddetto soft power, ovvero il grado di controllo che possono esercitare sulle relazioni internazionali grazie al ruolo di valuta globale del dollaro e potrebbero, in caso di crisi commerciale e valutaria, arrivare a utilizzare con maggiore frequenza, anche attraverso operazioni blitz o sotto copertura, il cosiddetto hard power, cioè l’opzione bellico-militare.
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Pechino, dal canto suo, non potendo agire sulle sue riserve in calo attraverso una reintegrazione finalizzata alla stabilizzazione del sistema bancario interno – poiché significherebbe rimpatriare denaro ora investito in debito Usa e dell’eurozona e così spingere ulteriormente al rialzo lo yuan, mentre per il 2012 la Cina pensa a una svalutazione -, punta al taglio netto dalla dipendenza dal dollaro, probabilmente mettendo in conto anche una diminuzione della detenzione di debito pubblico Usa, strada molto rischiosa già intrapresa negli ultimi sei mesi dalla Russia.
C’è però una variabile che nessuno ha finora messo in risalto e che rischia di pesare come un macigno su questa nuova strategia d’area messa in campo dai giganti asiatici: il debito giapponese. Tokyo, infatti, ha il debito pubblico cosiddetto marketable, ovvero sul mercato, più grande del mondo, pari a 11,2 triliardi di dollari e le vendite di bonds saliranno nel 2012 al record di 149,7 triliardi di ieri (circa 1,9 triliardi di dollari), mentre la dipendenza del budget nazionale dal debito per il finanziamento crescerà al dato senza precedenti del 49% nell’anno che comincerà il 1 aprile. Il governo nipponico ha pianificato di vendere 44,2 triliardi di yen di nuovi bonds per finanziare 90,3 triliardi di spesa del budget del prossimo anno fiscale, questo a fronte di entrate per 42,3 triliardi di ieri: insomma, per il quarto anno consecutivo, in Giappone la vendita di nuovo debito sarà superiore all’introito fiscale. In prospettiva, la spirale è quella di un mondo senza tasse, poiché sarà il debito creato e venduto a finanziare gli Stati, ovvero a finanziare la loro bancarotta. Ne è conscio il ministro delle Finanze giapponese, Jun Azumi, il quale il 24 dicembre scorso ha candidamente dichiarato che «è mia convinzione che la dipendenza dei nostri budget dai bonds stia raggiungendo il limite».
Non a caso, lo scorso 25 novembre il direttore dei rating sovrani per l’Asia di Standard&Poor’s, Takahira Ogawa, annunciava con queste parole il più che probabile, futuro downgrade nipponico: «Le finanze giapponesi stanno peggiorando giorno dopo giorno, secondo dopo secondo». E a confermare la rotta da veri kamikaze scelta dai governanti nipponici ci ha pensato addirittura l’agenzia di rating nazionale R&I, la quale il 21 dicembre scorso ha tagliato il rating giapponese da AAA ad AA+, decisione che per Akane Enatsu, analista del credito alla Barclays Capital di Tokyo, «porterà non solo i managers monetari ma anche i cittadini giapponesi (detentori del 95% del debito pubblico, ndr) a dubitare seriamente sullo stato di salute delle finanze nazionali». In effetti, le cifre parlano da sole. A fronte di una popolazione molto anziana, di una crescita molto debole e deflazione che hanno fiaccato il Paese a turno dall’esplosione della bolla di inizio anni Novanta, il Giappone vanta la più alta ratio debito/Pil, qualcosa come il 220% e un carico di debito che si proietta per quest’anno fiscale a un quadrilione di yen.
Di più, nel 2012 il governo giapponese prenderà a prestito il 56,2% di ogni singolo yen che spenderà, con l’aggravate che nel Paese c’è la tradizione ormai consolidata di manovre correttive in corso d’opera, solo quest’anno quattro, l’ultima delle quali da 2 triliardi di yen approvata il 1 dicembre. Nulla ci offre la certezza che questo non accadrà anche nel 2012 – anzi – e quindi le necessità di finanziamento per la spesa corrente potrebbe arrivare al 60%. E a dispetto dei tassi praticamente a zero della Bank of Japan, gli interessi sul debito – già al 230% del Pil – rischiano di mangiarsi 21,9 triliardi di yen il prossimo anno, il 51% dell’introito fiscale. Cosa succederebbe se il rendimento dei bond nipponici a 10 anni salisse nel 2012 dall’1% al 2%? Cosa succederebbe se il Giappone, inteso come Stato, istituzioni e cittadini, non fosse più in grado di finanziare il proprio debito a interessi bassissimi e con controllo dello stesso al 95%? Cosa succederebbe se Tokyo dovesse confrontarsi con il mercato, esattamente come accadrà a Stati Uniti ed Europa, intesi come debiti sovrani ma anche corporate? Meglio non chiederselo. Insomma, più che un’intesa commerciale-valutaria, quella stretta tra Cina e Giappone appare un’Opa – per ora non ostile – della prima sul secondo.
E il fatto che ieri il primo vice presidente iraniano, Mohammad Reza Rahimi, abbia minacciato di chiudere al traffico mondiale di petroliere lo stretto di Hormuz, se verranno decise sanzioni contro le sue esportazioni petrolifere, parla la lingua di un attivismo cinese sempre crescente, stante le chiare parole pronunciate il 5 dicembre scorso dal generale cinese, Zhang Zhaozhong, riguardo la determinazione di difendere l’Iran da un’eventuale aggressione, anche a rischio di scatenare la Terza Guerra mondiale. All’America, che il 30 dicembre innalzerà di un altro triliardo il tetto di indebitamento per evitare sfondamenti, la prossima mossa.
E che dire della decisione della Banca centrale cinese di ottimizzare il portafoglio in valuta estera e comprare ancora oro quando il prezzo dello stesso mostrerà oscillazioni favorevoli? Un altro attacco al dollaro, definire e intendere l’oro come valuta e mettere in competizione il gold standard con il dollar standard, prefigurando un domani senza biglietto verde come moneta globale a fronte del debito monstre che sottendono i dollari usati per gli scambi in tutto il mondo. Di certo, per ora, c’è una sola cosa: se il Giappone nel 2012 entrerà nella spirale del debito e del suo rifinanziamento, la crisi sovrana dell’eurozona potrebbe tramutarsi nella fine dell’euro.
P.S. Dedicato ai sacerdoti dell’antipolitica e ai tecno-euforici. «Sento tanti miei colleghi esercitarsi nella definizione di questa crisi economica. Ma io non credo si tratti di sola crisi. Si tratta di qualcosa di peggiore: una vera e propria guerra geopolitica su basi finanziarie. Il prossimo anno i giganti dell’economia occidentale, Usa e i grandi Stati europei, dovranno convincere investitori a finanziare i loro debiti in scadenza per il 2012 e lo faranno, a tratti, anche in concorrenza tra loro». Lo ha dichiarato Laura Ravetto, responsabile propaganda del Pdl. Chapeau, nient’altro da aggiungere. Non sono tutti degli Scilipoti i politici italiani. E non tutti i tecnici sono tali. Anzi.