Gli imprenditori italiani lottano per non soccombere alla crisi; ma, ai suoi effetti nefasti, si somma la stretta creditizia che soffoca, ormai da anni, famiglie e aziende. Chi ha il compito di erogare i liquidi necessari alla sopravvivenza, in genere, nega, sostenendo che nulla è cambiato; ma è sufficiente parlare con un qualunque imprenditore per rendersi conto di come stiano realmente le cose. Lo abbiamo fatto con Luca Bondioli, presidente di Adici (Associazione Distretto Calza e Intimo).



Quando è nata la vostra associazione?

Adici è nata nel 2009 da un’idea di giovani imprenditori – il Consiglio direttivo è formato da persone tra i 24 e i 42 anni – in seguito alla constatazione del fatto che il territorio compreso tra Mantova e Brescia, sotto il profilo di questo settore industriale, non era adeguatamente valorizzato.



Cos’ha di particolare questo territorio?

Fino al 2005, nell’arco di una 70ina di chilometri, veniva realizzato il 70 per cento della produzione europea di calze e il 33 per cento della produzione mondiale. Ad oggi, stimiamo la produzione a livello europeo sotto il 50 per cento e sotto il 20 a livello mondiale. In questa zona, inoltre, sono compresi il 97 per cento dei calzifici italiani.

Qual è l’incidenza del settore sul mercato occupazionale?

Pensi che tra Mantova e Brescia ci sono 400 aziende, mentre in tutta la Lombardia sono 758 partite Iva che operano nel settore. Nella sola zona di Castelgoffredo – in provincia di Mantova – ci sono 9mila dipendenti; se consideriamo tutto il comprensorio diventano 11mila, 16mila se prendiamo in considerazione l’indotto.



E il suo fatturato?

Oltre due miliardi di euro.

Qual è lo scopo della vostra associazione?

Tutelare le aziende e i posti di lavoro che garantiscono.

Come?

Anzitutto, cambiando la mentalità del territorio.

Ci spieghi meglio

Fino a poco tempo fa la concorrenza era interna allo stesso distretto. Oggi ci dobbiamo scontrare con produttori mondiali che operano secondo logiche e strategie completamente diverse. Per cui, concorrere non potrà più significare il contrasto tra le aziende dello stesso territorio; ma, al contrario, significa che queste dovranno iniziare a “correre insieme”.

Cosa state facendo, in concreto, per raggiungere questo obiettivo?

Stiamo cercando, anzitutto, di mettere in rete le aziende. Paradossalmente, fino a poco tempo fa gli imprenditori del medesimo settore e dello stesso territorio, non si conoscevano tra di loro. Oggi, superate le prime diffidenze, si è arrivati al punto che è possibile riunire il consiglio direttivo di volta in volta nell’azienda di uno dei consiglieri. Le piccole inimicizie di un tempo sono scomparse, e svariati imprenditori, tra i consiglieri e tra gli associati hanno preso a collaborare.

Quali difficoltà avete incontrato a causa della crisi?

Anzitutto, c’è stato un aumento spropositato del costo delle materie prime – lana, cotone e poliammide – segnalata anche, in un’interpellanza parlamentare, al ministro per lo Sviluppo economico. Si è aggiunto il calo dei consumi e il caldo estremo che ha spostato in avanti nel tempo le vendite.

Cosa chiedete?

Prima di tutto, regole certe  e monitoraggi seri. I produttori di calze italiani lavorano con determinati standard qualitativi, rispettando le norme che tutelano il consumatore. Da una nostre indagine, è emerso che, nel 34 per cento dei prodotti, l’etichetta non corrisponde alla reale composizione del prodotto. Merce contraffatta, quindi, che spesso proviene dall’estero ed è venduta a prezzi inferiori. Si tratta di concorrenza sleale. Lo abbiano segnalato anche alla Commissione parlamentare antitruffe e sofisticazioni, facendo presente che sui banchi dei nostri supermercati non di rado sono presenti, ad esempio, calze con all’interno componenti chimici banditi dall’Europa da 5 anni, perché si è scoperto che sono pericolosi per la salute, provocando alterazioni del Ph e dermatiti.

E sul fronte creditizio?

Le nostre aziende sono troppo piccole per il mercato globale. Riuscire a vendere nei mercati come la Cina per un’impresa che fattura 5-10 milioni di euro è arduo. Molte di queste devono trovare una linea di intesa comune. Ebbene: il Fondo italiano di investimento Sgr dà garanzie dai 5 ai 100 milioni. Ma, per potervi accedere, occorre fatturare dai 10 ai 100 milioni di euro ed avere un bilancio solido.  Abbiamo chiesto che ne possa beneficiare chi intende crescere facendo acquisizioni o con progetti in proprio; e chi vuol mettersi in rete con un progetto comune; ma, contestualmente, chiediamo che si abbassino i requisiti a 5 milioni di euro. E che si tenga conto del fatto che i bilanci sono inficiati dalle difficoltà di questa stagione, causate dal calo degli ordinativi.