Il metro che molti commentatori utilizzano per valutare la manovra proposta dal Governo è in che misura l’insieme dei provvedimenti riuscirà a far uscire da problemi di breve e medio periodo non solo l’Italia, ma anche l’Europa, più precisamente l’eurozona (un eventuale collasso dell’unione monetaria, secondo molti, sarebbe la premessa di quello dell’Unione europea). Si tratta di un metro e di un’ipotesi che hanno riscontro nella teoria e nella storia economica? In primo luogo – lo ammise Romano Prodi alcuni anni fa e lo ha riconosciuto Jacques Delors nei giorni scorsi – i trattati che governano l’eurozona sono stati redatti a prescindere dalla teoria economica, specialmente da quella “teoria delle aree valutarie ottimali” che dagli anni Settanta tutti insegniamo nelle Università.



Era una “fuga in avanti”, redatta frettolosamente sotto il pungolo dell’unificazione tedesca nella speranza che gli altri elementi (di una “area valutaria ottimale”) sarebbero stati innescati rapidamente dal processo messo in moto. Ciò non è avvenuto perché avrebbe richiesto modifiche profonde nei comportamenti di individui, famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni, ceto politico e una profonda ristrutturazione di numerose economie degli Stati coinvolti. Ergo la necessità e l’urgenza di riscrivere i trattati.



In secondo luogo, l’eventuale insolvenza del debito sovrano di uno degli Stati del club raramente è la determinante del collasso di un’unione monetaria. Spesso Stati degli Usa sono insolventi, ma l’unione monetaria americana (completata nel 1913, dopo decenni di integrazione economica effettiva, e costruita tenendo conto di quella che sarebbe diventata una “area valutaria ottimale”) non ne ha avuto la più piccolo scossa. Un’insolvenza dell’Italia (o della Grecia, o della Spagna, o del Portogallo) potrebbe finire nel caos per due ragioni: a) il rischio sistemico creatosi nel sistema bancario; b) la distanza dell’eurozona da quella che dovrebbe essere una “area monetaria ottimale”.



La storia economica, anche recente, della fine di “unioni monetarie” tra paesi sovrani e sviluppati (non esito quindi di conquiste o di federalismo forzoso) ce lo insegna. Sono finite per separazione consensuale senza troppe sofferenze, le due unioni monetarie più durature della storia contemporanea: quella tra Regno Unito e Repubblica irlandese (che ha resistito da circa il 1920 al 1979) a quella tra Belgio e Lussemburgo (dagli anni Venti al Trattato di Maastricht). Tali unioni avevano la caratteristica di coniugare uno Stato grande con uno piccolo (in termini di area e di popolazione), con strutture economiche simili e in gran misura la stessa lingua e cultura. Anche la fine della Cecoslovacchia (con la creazione di due monete differenti) avvenne senza traumi grazie alla collaborazione degli importatori slovacchi (con un forte indebitamento) e degli esportatori cèchi (con un sostanzioso attivo). Ci furono tensioni, ma non si scatenò nessuna crisi neanche a livello regionale.

Interessanti i casi di tre unioni monetarie il cui collasso fu in gran misura inatteso. Molto documentato quello dell’unione monetaria austro-ungarica successivo alla fine della Prima guerra mondiale e alla fine della Duplice monarchia: avvenne una vera e propria frammentazione politica in cui i Governi dei nuovi Stati si comportarono opportunisticamente nei confronti dei vecchi partner, impossessandosi, spesso, dei depositi di questi ultimi nelle filiali di banche finiti sotto la loro giurisdizione; quasi sempre si adottò la conversione forzosa dei depositi in titoli dei (nuovi) Stati. Qualcosa di analogo – ma c’è scarsa documentazione in materia – alla fine dell’unione monetaria di quella che è stata l’Urss. Nessun danno dal collasso dell’Unione monetaria della Malesia da cui se ne andò via unilateralmente Singapore, liberandosi di lacci e laccioli di un sistema di governante ficcanaso e inconcludente e ponendo le basi per la propria rapida crescita. Contenuti i danni della morte dell’“area della sterlina” nel novembre del 1967; era nell’aria da anni e alcuni Stati dell’area avevano predisposto sentieri di uscita.

La lezione che se ne trae: il terrorismo psicologico fa più male che bene (in quanto diffonde incertezza ed estremizza le posizioni); una separazione ben gestita è sempre migliore di chi dà mandato agli avvocati per divedersi piatti e forchette di una casa che non è più tale.

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