La reintroduzione dell’Ici sulla prima casa, che sarà contenuta nell’Imu (imposta municipale unica) assieme alle tasse sulla spazzatura, conterrà alcune novità. Avrà un’aliquota del 4 per mille (dalla seconda casa, in poi, sale al 7), con la possibilità discrezionale dei comuni di aumentarla o diminuirla di uno 0,2%. Ma, soprattutto, sarà calcolata su rendite catastali determinate in maniera tale da garantire un maggiore esborso pari al 60%. Un incremento che non deriverà dalla rivalutazione, ma dalla decisione di applicare un coefficiente fisso di moltiplicazione pari a 160. In sostanza, una stangata per i contribuenti, che dovrebbe garantire un gettito compreso tra i 7 e gli 11 miliardi. «Il fatto che debbano essere pagate delle imposte per i servizi locali è fuori discussione, come lo è il fatto che gli enti locali siano stati privati, dal governo Berlusconi, del gettito necessario per garantire tali servizi. Tuttavia, questa misura, letta alla luce della manovra complessiva potrebbe rivelarsi controproducente», afferma, interpellato da ilSussidiario.net, l’avvocato Stefano Morri. «E’ vero – continua – che l’aggravio fiscale pesa, sulla manovra complessiva, circa un terzo. Ma il provvedimento, nel suo complesso, ammonta a 24 miliardi che, su un debito di 1900 è ben poca cosa». Secondo l’avvocato «l’aumento della contribuzione dei Comuni si dovrebbe accompagnare ad una politica di liberalizzazioni che facciano sì che gli enti locali riducano la propria presenza nei servizi pubblici». Non solo: «La reintroduzione dell’ici sulla prima casa, così maggiorata, graverà sulle tasche dei contribuenti in maniera significativa. Il che rischia di ridurre ulteriormente il tasso di sviluppo e, di conseguenza, il denominatore del deficit. Avrà un effetto sui consumi che già adesso stanno crollando, anche per una questione psicologica. Credo, quindi, che alla tassazione seguirà la strada della recessione». Questo perché, «in generale si è diffusa la sensazione che si instaurerà un regime di sacrifici e tasse sempre più alte». Il provvedimento, secondo Morri, potrà al limite lanciare un segnale politico: «può essere utile, al massimo, per dare all’Europa un segnale di serietà necessario per poter, in seguito, contribuire a convincere le istituzioni dell’Unione – in particolare, la Germania – a trasformare la Bce in quel prestatore di ultima istanza in grado di coprire i debiti sovrani». Il messaggio sarebbe questo: «l’Italia è pronta a dei sacrifici, e la Germania si può fidare di noi e accettare la trasformazione della Bce sapendo che non ci rimetterà».
Sul piano, invece, della strategia operativa nell’immediato, Morri si rammarica che non sia stata perseguita un’altra strada: «I 500 miliardi di patrimonio dello Stato potrebbero usati per rimborsare il debito. Non capisco perché questo tema non venga neanche affrontato. Parlo di fondi di investimento che contengano patrimonio pubblico. Dovrebbero essere gestiti da professionisti, un consorzio di banche, ad esempio, che valorizzasse tale patrimonio, moltiplicandone il valore e emettendo titoli, sottoscritti dagli azionisti del fondo di investimento, con il quale ripagare il debito».