Si apre oggi la due giorni che dovrebbe salvare l’euro e l’Ue. Toglietevi pure ogni residuo di speranza dalla testa, amici miei: come scriveva ieri Goldman Sachs in una nota agli investitori, «le possibilità di una delusione dall’incontro di venerdì sono cresciute molto e ormai appare chiaro come per giungere a una soluzione si dovrà attendere il nuovo anno, con conseguenze sui mercati e sulle loro aspettative che verranno disattese». Et voilà, nemmeno iniziate le discussioni e già Goldman schiaccia l’ultimo chiodo sulla bara del topolino partorito dalla montagna franco-tedesca. Ma a farmi dire che, se anche si arrivasse a un compromesso pasticciato – tipico dell’Ue -, gli addendi della crisi cambierebbero solo il loro ordine, ma dando sempre la stessa somma, sono tre dati emersi ieri. Primo, la Cftc (l’autorità che vigila sul mercato futures e derivati statunitense) ha deciso all’unanimità di vietare alle 123 società registrate in America che operano sui futures, l’acquisto di titoli di Stato europei con somme e per conto dei propri clienti. Al contrario, i big dei futures potranno acquistare per i clienti soltanto titoli di stato americani.



Tutto questo proprio nel giorno in cui il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, si trovava in tournée stile Lady Gaga in Europa per portare il presunto sostegno americano al piano di rafforzamento dell’euro che verrà discusso da oggi. La decisione della Cftc, che è immediatamente operativa, colpisce un mercato stimato in 150 miliardi di dollari, tale è la cifra raccolta annualmente presso i clienti per questo tipo di investimenti. Da quanto si apprende, la clamorosa decisione dell’Authority – destinata a creare nuove tensioni sul mercato del debito sovrano europeo – è stata presa come reazione al crack della Mf Global, il colosso dei futures da 5,5 miliardi di dollari, guidato dall’ex di Goldman Sachs, John Corzine, andato in bancarotta dopo aver investito a piene mani sui titoli di stato italiani, spagnoli e di altri paesi europei con somme dei clienti. Tempismo perfetto, non c’è che dire, ma evitiamo dietrologie eccessive: sono ormai tre settimane buone che i fondi Usa stanno scappando a gambe levate dal debito europeo, non serviva certo la Cftc.



Secondo, con una mossa a dir poco funambolica, la Bank of Japan sembra aver capito con molto anticipo e acutezza quali saranno le difficoltà di finanziamento del debito l’anno prossimo – essendo il 2012 l’annus horribilis per il mercato obbligazionario sia sovrano che corporate – e ha deciso di offrire a chi compra i cosiddetti “reconstruction bonds”, obbligazioni nipponiche per finanziare la ricostruzione post-Fukushima, mezza oncia d’oro, un incentivo che ai prezzi correnti potrebbe garantire un ritorno sei volte superiore al mero investimento obbligazionario contratto. Gli investitori individuali che compreranno più di 10 milioni di yen (circa 129mila dollari) di debito con un rendimento dello 0,05% e li terranno per 3 anni, riceveranno un moneta commemorativa del peso di 15,6 grammi (0,55 once), all’attuale valore di 948 dollari l’oncia. Insomma, a fronte della miseria di 15mila yen di ritorno dall’investimento in bonds, i detentori potranno ottenere fino a 89mila yen dall’oro.



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Calcolate che il coupon a tre anni che verrà venduto il prossimo 16 gennaio sarà dello 0,18%, mentre il rendimento del decennale resta sotto l’1%. Per chi non arriverà alla cifra di 10 milioni, ma supererà il milione di yen di investimento, ci sarà una moneta d’argento da 31,1 grammi. Insomma, manca solo che per piazzare un po’ di debito in Giappone ti regalino anche due etti di prosciutto crudo e un pacchetto di sigarette: attenzione, il 2012 sarà l’anno del botto obbligazionario contemporaneo allo scoppio della bolla cinese, il cosiddetto hard landing.

Terzo, le banche francesi hanno perso qualcosa come 100 miliardi di euro in depositi a breve termine nel solo mese di settembre scorso, molti dei quali proprio per mosse precauzionali dei money market funds statunitensi e asiatici, spaventati dall’esposizione francese sull’Italia. Detto fatto, ad andare in sofferenza estrema sono stati i bilanci della Banca centrale francese, le cui liabilities sono salite di colpo a fine luglio, passando da 10 miliardi ai 98 di settembre, un dato che fa tremare polsi se paragonato a quelle di altre banche centrali di paesi cosiddetti a rischio fallimento: quella irlandese 118 miliardi, quella spagnola 108 e Bankitalia 89. A giustificare questo collasso, tre avvenimenti: il crollo degli ordini manifatturieri nell’eurozona del Sud, la geniale intuizione di Jean-Claude Trichet di alzare i tassi e l’altrettanto furba scelta del vertice Ue di luglio di coinvolgere i creditori privati della Grecia nel piano di salvataggio. E dove sono finiti quei soldi? In Germania, Olanda e Lussemburgo, lo conferma la Bce nel suo dato Target2. Insomma, siamo ormai in un territorio sconosciuto della teoria monetaria e il gap tra Nord e Sud dell’eurozona si sta ampliando in maniera spaventosa.

A mio avviso questi tre dati sono sufficienti per non riporre alcuna fiducia nella due giorni europea che si apre oggi. Ma c’è un altro dato che appare decisamente interessante, anche alla luce della manovra lacrime e sangue varata dal governo Monti, non sorprendentemente gentile con le banche e spietata invece con i contribuenti. Ieri Bankitalia ha reso note alcune cifre interessanti, eccone due. Rallentano i prestiti del settore bancario alle famiglie a ottobre, mentre nel mese di novembre le banche italiane si sono rifinanziate presso la Bce per un ammontare di 153,2 miliardi di euro rispetto ai 111,2 miliardi di ottobre. Insomma, rubinetti chiusi per famiglie e imprese e caveau pieni di soldi della Bce, cioé dei contribuenti, pronti a tornare a dormire nei depositi overnight dell’Eurotower in ossequio all’assenza di fiducia e al credito interbancario congelato. Certo, è più che probabile che la gran parte di quei soldi vada a colmare il gap di liquidità e quindi servano a garantire crediti e pagamenti (tipo i grandi versamenti fiscali di privati e imprese dal 28 novembre al 22 dicembre), ma il nodo non sta qui.

Sempre Bankitalia ha infatti reso noto che le banche italiane sono le colpevoli della crescita a dismisura della vendita di credit default swaps nell’eurozona! Evviva, i cinque principali istituti di credito italiani (che coprono il 90% del mercato nazionale di derivati) hanno visto crescere la vendita netta di protezione del 41% alla fine di giugno, raggiungendo quota 24 miliardi di dollari. Il valore nominale del contratti derivati di banche italiane è cresciuto del 13% nella prima metà di quest’anno raggiungendo quota 11,1 triliardi di dollari, stando a quanto riportava Bankitalia su dati forniti da Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi, Banco Popolare e Ubi Banca.

Insomma, lungi dal tenere fede al loro mandato statutario di erogare credito e gestire risparmio, le principali banche del nostro Paese – quelle che vedranno la rivalutazione catastale dei loro immobili al 20% contro il 60% dei comuni mortali e beneficeranno del tetto sull’uso di contante nei pagamenti – continuano a giocare a Goldman Sachs, basando tutto sui trading desks invece che sugli sportelli. Non sarebbe la prima volta che una banca scommette sul fallimento del proprio Paese o continente, arricchendosi vendendo protezione (nel marzo del 2010, quando quei geni di tedeschi minacciavano addirittura di muovere i servizi segreti contro la City di Londra e Wall Street, si scoprì infatti che il più grosso speculatore contro la Grecia era proprio la banca statale ellenica Hellenic Post Bank, detentrice del 15% degli 8 miliardi di dollari nozionali di cds greci), ma questa volta la cosa è diversa e l’aumento del 13% dell’ammontare nozionale in derivati è qualcosa di spaventoso.

I nostri istituti, infatti, non operavano in strategia speculativa, ma tentavano di bypassare la difficoltà per il mercato europeo di finanziarsi in dollari, vendendo credit default swaps denominati proprio in biglietti verdi. Ovvero, offrendo protezione derivata agli investitori in cambio di un cashflows in dollari che altrimenti era reperibile solo a costi proibitivi sul mercato. Ora però che la Fed ha offerto alla Bce linee di swaps in dollari più semplici e a basso costo, quel nozionale enorme di derivati resta sul groppone delle nostre banche che pensavano di essere più furbe delle altre (anche se probabilmente una parte di quell’aumento di posizioni cds non è in conto proprio, ma bensì per conto di clienti, ovvero anche banche straniere). Insomma, lungi dall’essere sanissimo come dice, il nostro sistema bancario si è seduto su una bomba a orologeria. E il governo Monti lo sa, altro che conti in rosso e stipendi e pensioni a rischio senza questa manovra, tutta in favore della banche: qui stava saltando il sistema creditizio. E, ancora una volta, sarà il vostro salasso al distributore o la vostra Imu sulla prima casa a tappare la falla.

 

P.S. E tanto per capire quale sia lo stato di sofferenza del sistema bancario europeo riguardo le necessità di finanziamento in dollari, Reuters rende noto che a una settimana dall’intervento sulla liquidità deciso da Fed e altre cinque banche centrali, la prima offerta in tal senso da parte della Bce ha conosciuto una domanda record. Gli istituti dell’eurozona hanno infatti chiesto all’Eurotower 50,7 miliardi di dollari di finanziamento a 84 giorni e 1,602 miliardi di dollari a una settimana, ben al di sopra della previsione media di 10 miliardi di dollari stilata dall’agenzia d’informazione attraverso un sondaggio tra money market traders.

Il problema è che queste misure, in quanto emergenziali, servono soltanto a cercare di rallentare una sempre crescente crisi di solvibilità nell’eurozona, ma difficilmente otterranno risultati sul lungo periodo. E a complicare il quadro è il fatto che gli indicatori di liquidità non denominati in dollari hanno toccato ieri un’altra volta un punto di inflessione, virando in negativo: lo spread Euribor/Ois a tre mesi è infatti salito a 1002 da 0,999 di martedì, in prossimità del massimo della scorsa settimana a 1006, il peggior dato dal marzo 2009. Cosa significa questo? Volgarmente parlando, lo squeeze di finanziamento ha cominciato a spostarsi dal dollaro e sta impattando il mercato dell’euro stesso, un qualcosa su cui la Fed non ha il benché minimo controllo.

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