Mario Monti, che evidentemente ben conosce i meccanismi della comunicazione in ambito politico, ha definito la manovra approvata dall’Esecutivo che presiede “decreto salva Italia” e anche “decreto salva Europa”. Quando si tratta di salvarsi la pelle, è implicito che ognuno debba fare la sua parte, sobbarcandosi anche pesanti sacrifici. Nel caso del decreto Monti non pare di poter dire tuttavia che i sacrifici siano stati divisi equamente tra cittadini e Stato. I primi sono destinatari di una raffica di misure che incideranno pesantemente su una situazione economica che, per molti di essi, è già tutt’altro che florida; al secondo non vengono imposti restrizioni e comportamenti virtuosi se non limitatamente ad alcuni e circoscritti aspetti.



Per quanto riguarda i tagli ai costi dell’attività politica, la tanto vituperata “Casta” potrebbe uscire indenne (o quasi) dalla manovra. È vero che alcuni degli argomenti più “gettonati” in tema di tagli dei costi della politica, come ad esempio la riduzione del numero dei parlamentari, non avrebbero comunque potuto essere affrontati direttamente nell’ambito del decreto Monti, in quanto presuppongono una modifica della Costituzione; ciò non toglie, tuttavia, che vi fossero ambiti di spesa nei quali era possibile intervenire con decisione per ridurre i costi della politica e dell’apparato burocratico dello Stato.



Nell’ultima versione del decreto, è spuntata una norma che riguarda anche le indennità dei componenti di Camera e Senato. Il decreto legge n. 9/2011 stabilisce che il trattamento economico dei parlamentari debba essere parametrato a quello dei componenti dei Parlamenti nazionali degli altri sei principali stati dell’Area Euro e istituisce una Commissione che provvede alla ricognizione e all’individuazione della media di tali trattamenti economici. Ora il decreto Monti prevede che, ove la Commissione non provveda a tali adempimenti entro il 31 dicembre 2011, “il Governo provvederà con apposito provvedimento d’urgenza”. Probabilmente la norma subirà modifiche in sede di dibattito parlamentare, anche perché obiettivamente risulta mal formulata. Non si comprende infatti se a quel punto il Governo dovrebbesostituirsi alla Commissione per effettuare le ricognizioni ora demandate alla stessa (il che parrebbe più aderente allo spirito della norma) o se avrebbe carta bianca nella determinazione del trattamento economico dei parlamentari.



Un’iniziativa importante è stata invece assunta dal decreto Monti con riferimento al ruolo delle Province. Sull’argomento era già intervenuto il Governo Berlusconi, in uno dei decreti legge estivi finalizzati alla stabilizzazione finanziaria e allo sviluppo, prevedendo la soppressione di tutte le Province a eccezione di quelle aventi una popolazione superiore a 300.000 abitanti o una superficie complessiva di più di 3.000 chilometri quadrati. In aggiunta era stabilito il dimezzamento del numero dei consiglieri e degli assessori provinciali nelle Province “superstiti”.

Tuttavia, la norma relativa alla soppressione delle Province è poi stata eliminata in sede di conversione in legge, mentre è stata mantenuta quella relativa alla riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori provinciali. La scelta del decreto Monti non è stata nel senso della soppressione tout court delle Province, obiettivo che pur rappresenta uno dei punti del programma di governo, ma che necessita anch’esso di una modifica costituzionale, quanto piuttosto di un forte ridimensionamento delle stesse.

Con il decreto si prevedono l’abolizione delle Giunte Provinciali e la riduzione a dieci del numero massimo dei componenti dei Consigli Provinciali. Le Province vengono private delle loro attuali competenze ed è previsto che le stesse svolgano esclusivamente funzioni di indirizzo politico e di coordinamento dell’attività dei Comuni in determinate materie. Le funzioni attualmente attribuite alle Province dovranno essere trasferite ai Comuni entro il 30 aprile 2012 (ma è da ritenere che ben difficilmente questo termine potrà essere rispettato).

Per il resto le previsioni in materia di tagli alle spese riguardano l’immancabile soppressione di alcuni “enti inutili” (che in Italia, si sa, è sempre molto difficile riuscire a sopprimere veramente) e la riduzione del numero dei componenti del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) e delle Autorità indipendenti (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture,Autorità per l’energia elettrica e il gas, Autorità garante della concorrenza e del mercato, Commissione nazionale per la società e la borsa, Consiglio dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo, Commissione per la vigilanza sui fondi pensione, Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche,Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici). Il che, in buona sostanza, significa prevedere la riduzione del numero complessivo dei componenti di questi enti di qualche decina di unità, con la conseguenza che il risparmio ottenuto, rapportato alla portata complessiva della manovra, risulta assolutamente irrisorio e riveste valore quasi esclusivamente simbolico.

Purtroppo, i limitati tagli dei costi di funzionamento dell’apparato statale non sono nemmeno compensati dall’elaborazione di un efficace piano di dismissione degli immobili di proprietà pubblica. Il che è tanto più grave ove si consideri che l’alienazione del patrimonio immobiliare consente agli enti pubblici non solo di ottenere le entrate derivanti dai corrispettivi per la cessione, ma anche di risparmiare i costi di gestioni per le quali è sempre più difficile reperire risorse adeguate.

Da ultimo la legge di stabilità per il 2012, la cui approvazione ha coinciso con le dimissioni di Silvio Berlusconi da Presidente del Consiglio, ha autorizzato il Ministro dell’Economia e delle Finanze a trasferire beni immobili dello Stato individuati con appositi decreti (il primo dei quali da emanarsi entro il 30 aprile 2012, che dovrebbe comprendere anche una quota non inferiore al venti per cento delle carceri inutilizzate e della caserme assegnate alle forze armate che siano dismissibili) a uno o più fondi comuni di investimento immobiliare, ovvero ad una o più società, anche di nuova costituzione.

Dal canto suo, il decreto Monti si limita invece a prevedere una serie di strumenti (società, consorzi, fondi immobiliari, “programmi unitari di valorizzazione territoriale” promossi dalle Regioni per il riutilizzo funzionale e la rigenerazione degli immobili di proprietà delle Regioni stesse, delle Province e dei Comuni e di ogni soggetto pubblico, anche statale, proprietario, detentore o gestore di immobili pubblici), senza tuttavia elaborare un piano di dismissione e senza porre le basi concrete perché ciò possa avvenire in futuro in tempi certi e rapidi. È senza dubbio un’occasione persa.