Non so voi, ma io non sono mai riuscito ad appassionarmi troppo alle “rivoluzioni spontanee” elaborate a tavolino dal Dipartimento di Stato americano (il quale fa benissimo a tutelare gli interessi Usa, ma quando questi confliggono con quelli europei, ovvero i nostri, la cosa mi va meno a genio): non lo dico io, lo dicono i cables di WikiLeaks che certificano come da almeno due anni gli Usa stessero fiancheggiando (ovvero, organizzando e finanziando) l’opposizione egiziana in chiave di regime change.
Strano il mondo: fino a ieri Hosni Mubarak era l’interlocutore principale dell’Occidente verso il mondo arabo, era il campione del laicismo, della diplomazia e della moderazione, l’uomo su cui le cancellerie potevano fare affidamento, il politico che sancì la pace con Gerusalemme. Di colpo, in una settimana, è diventato un mostro da abbattere. A che prezzo, politico, lo scopriremo a breve visto che dietro la faccia spendibile e da premio Nobel di Mohamed Al-Baradei ci sono i Fratelli Musulmani, organizzazione saggiamente messa fuori legge proprio da Mubarak e destinata ora a un ruolo molto simile a quello di Hezbollah in Libano: non a caso, come spessissimo accade, l’unico parere sensato al riguardo è giunto da Israele, spaventato da una deriva iraniana dell’Egitto e pronto ad accomunare Barack Obama a Jimmy Carter: quest’ultimo, infatti, si giocò proprio l’Iran sul finire degli anni Settanta, con ciò che ne conseguì e ancora ne consegue.
Vedremo, per ora di certo c’è l’impatto economico di questa “rivolta popolare” eterodiretta. I tassi dei mercati monetari nelle nazioni in via di sviluppo stanno crescendo a ritmi mai conosciuti dal 2008, con le banche centrali dalla Cina al Brasile intente ad alzare i costi per il prestito e gli istituti di credito decisi ad accumulare contante per i timori di destabilizzazione del Medio Oriente a causa della rivolta egiziana. Il rendimento sull’indice JP Morgan Chase&Co ELMI+ sul debito a medio termine nei mercati emergenti è salito al 2,5% il 28 gennaio scorso, dal minimo storico dell’1,74% registrato solo il 31 dicembre. Ma anche i costi del prestito cosiddetto overseas sono saliti, con l’extrarendimento da pagare per i bonds denominati in dollari delle nazioni emergenti rispetto ai Treasuries statunitensi schizzato al 2,77%.
L’inflazione sta accelerando in sette delle dieci più grandi nazioni emergenti a causa dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari e del cotone, mentre il petrolio ha portato l’indice S&P GSCI delle commodities al livello massimo dal settembre 2008: il 28 gennaio il prezzo del greggio è salito del 4,3% sopra quota 90 dollari il barile. Non a caso ieri Credit Suisse ha degradato gli emergenti da “overweight” a “neutral”. E mentre la Borsa del Cairo, capace di perdere il 16% in cinque giorni la scorsa settimana, resta chiusa, tutte le altre Borse dell’area arrancano con l’indice benchmark di Dubai al minimo da quattro mesi.
«La geopolitica sta inviando un chiaro segnale agli investitori. Il prezzo del petrolio è schizzato e questo potrebbe essere ragione di una pressione rialzista sui tassi d’interesse», ha dichiarato David Cohen, capo economista per l’Asia di Action Economics a Singapore. Attenzione, quindi, visto che l’ultima volta che i costi per prendere a prestito denaro nel breve termine sono saliti a questo ritmo è stata la seconda metà del 2008, quando la crisi finanziaria e i prezzi record delle commodities hanno spedito il mondo in recessione, costringendo le banche centrali a tagliare con l’accetta i tassi di riferimento.
Il Brasile ha alzato il suo benchmark overnight di 50 punti base il 19 gennaio scorso, arrivando al tasso del 11,25%: i traders si dicono certi che i costi per prendere a prestito denaro toccheranno i massimi da tre anni a questa parte entro la fine del 2011. L’India ha alzato i tassi al massimo da due anni il 25 gennaio e ha già annunciato nuovi incrementi, la Cina li ha alzati due volte da ottobre, mentre la Banca centrale russa ieri ha innalzato le richieste di riserve per le banche in un disperato tentativo di bloccare l’inflazione. I rendimenti dei bond egiziani denominati in dollari con maturazione 2020 sono saliti di 36 punti base al 7,33% ieri, il livello più alto da quando sono stati emessi ad aprile. I cds per proteggersi dal debito egiziano sono a loro volta saliti di 6 punti base a 437, il livello più alto da nove mesi a questa parte. Il governo ha spostato due aste previste per ieri e Moody’s ha tagliato il rating egiziano di un notch a Ba2, due livelli al di sotto del grado di investimento, mentre Fitch ha ridotto il rating nazionale da "stabile" a "negativo", preannunciando di fatto anch’essa un downgrade.
La nazione ha circa 272 miliardi di sterline egiziane (46 miliardi di dollari) di debito a maturazione quest’anno, stando ai dati di Bloomberg e circa il 97% di questa cifra è coperta da Treasury bills a breve termine e obbligazioni governative denominate in sterline egiziane: il governo ha in carico circa 2,5 miliardi di debito denominato in dollari, 1 miliardo di questo in obbligazioni che andranno a maturazione l’11 luglio. Inoltre, le banche straniere sono esposte in Egitto per un totale di 44 miliardi di dollari, 37,5 dei quali facenti riferimento a istituti europei: 17,1 per le banche francesi, 1,1 per quelle tedesche, 6,2 per quelle italiane e 10,6 per quelle britanniche. Ci sono poi 5 miliardi di dollari di esposizione bancaria Usa e meno di 1 miliardo giapponese.
Ma c’è di più e di peggio per l’Egitto. I titoli delle principali aziende del paese, come Orascom Construction, stanno crollando ai livelli più bassi dal luglio 2009 e rischiano di diventare preda di scalate ostili estere, ma, soprattutto, gli investimenti di mutual funds nel mercato equities delle economie emergenti hanno conosciuto nella settimana conclusasi il 26 gennaio, il tasso di fuga più alto dalla metà del 2008: i fondi hanno perso 3 miliardi di dollari, circa lo 0,4 % dei loro assets.
«Certamente non si può imputare a quanto sta accadendo in Egitto uno stop alla ripresa globale, ma è innegabile che i mercati odino l’incertezza e gli sviluppi egiziani ne hanno portata molta sullo scenario geopolitico», ha dichiarato a Robert Pavlik, capo analista alla Banyan Partner di New York. E se a prendere il potere saranno i Fratelli Musulmani, mascherati quanto volete, capite cosa significherà questo per Israele e per l’intera stabilità della zona: sarà l’Asia a pagare il prezzo più alto a questa destabilizzazione – che piace tanto a Hillary Clinton, infatti, in chiave anti-emergenti -, con la Cina che già oggi conosce un’intensità energetica per unità di Pil doppia degli Usa e tripla del Regno Unito.
Ma gli Usa sono interessati anche ad altro, ovvero evitare il blocco del Canale di Suez, letteralmente la più grande arteria per il petrolio che fa funzionare l’economia Usa (ogni giorno vi transitano 4-5 milioni di barili, cioè il 5% della produzione mondiale e il 7% del commercio internazionale) e che in caso divenga indifendibile dalla montante protesta – e quindi incapace di funzionare a pieno regime – potrebbe portare a un raddoppio del prezzo del greggio e al prezzo record di 7 dollari per un gallone di gas: occorre quindi destabilizzare in fretta per stabilizzare altrettanto di corsa la situazione. Venerdì scorso, infatti, i timori che dall’Egitto possa innescarsi un contagio di instabilità ai paesi produttori della regione hanno portato i futures sul Brent trattati a Londra a 99,63 dollari al barile, record da sedici mesi a questa parte, senza alcuna giustificazione sul piano della domanda reale.
Non fatevi abbindolare dalla storiella della rivoluzione per il pane: non furono certo i magri raccolti del 1788 a scatenare la Rivoluzione francese! L’aumento dei prezzi delle commodities, infatti, è solo il detonatore capace di innescare un circolo vizioso, con governi vulnerabili intenzionati a mettere sotto chiave provviste di grano finché possono. L’Algeria ha comprato 800 mila tonnellate di frumento la scorsa settimana, l’Indonesia ha ordinato 800 mila tonnellate di riso, entrambi quantitativi che eccedono grandemente i normali stock di acquisto. Anche Arabia Saudita, Libia e Bangladesh stanno cercando di assicurarsi extra-forniture di grano: insomma, i governi spaventati dall’agflazione e dall’aumento del prezzo delle commodities stanno mettendo in “corner” il mercato, scatenando proprio questo effetto!
La Fao ha dichiarato che il suo indice globale sul cibo ha sorpassato il suo massimo del 2008, in termini sia nominali che reali. L’indice sui cereali è salito del 39% lo scorso anno, quello sul petrolio del 55%. E proprio per evitare questa profezia autogenerante, la stessa Fao ha implorato i governi affinché evitino risposte dettate dal panico che «aggraverebbero soltanto la situazione». Il problema è che Hosni Mubarak, come Ben Ali, ha poco da ascoltare la Fao quando i palazzi del potere sono accerchiati da chi protesta contro il prezzo del pane! Come sapete, sono più che scettico su determinate pratiche puramente speculative legate alle commodities, ma quando sento Nicolas Sarkozy gridare contro gli hedge funds e promettere che la sua presidenza del G20 distruggerà questo racket, mi viene da ridere. Chiedete, infatti, al presidente francese perché ha richiesto il ritiro della pubblicazione del documento redatto dalla Commissione europea sul peso dei mercati derivati in questo settore, previsto in un primo tempo per domani.
Semplice, perché esattamente come i report fotocopia commissionati ai regolatori britannici e statunitensi, aveva raggiunto il medesimo risultato: zero evidenze rispetto al cambiamento dei processi di formazione dei prezzi a causa dei mercati derivati. I quali, infatti, hanno nella maggior parte dei casi effetto neutro a livello di contratti future: per ogni trader che fa soldi andando lungo su grano, zucchero o zinco, c’è un trader che ne perde giocando la partita opposta. È il semplice trasferimento di carta tra soggetti finanziari. Per impattare pesantemente i prezzi bisogna comprare e stoccare la commodity fisica, operazione costosa e difficoltosa, a meno che il soggetto non sia un governo: come quello cinese, ad esempio, che lo scorso anno, attraverso le sue aziende controllate, ha stoccato quantitativi enormi di rame (il cui prezzo, casualmente, ora è alle stelle).
Sono le riserve strategiche a pesare sui mercati, oltre a eventi non preventivabili come la siccità e gli incendi in Russia e nella regione del Mar Nero dello scorso anno, i peggiori da 130 anni a questa parte, capaci di danneggiare i raccolti e impedire la semina, di fatto azzerando la produzione del nuovo raccolto. La Russia impose il bando sull’export e in contemporanea si verificarono piogge torrenziali in Canada, le distruzioni di Nina in Argentina e una seria di strategici downgrade delle quantità di acri coltivabili negli Stati Uniti.
Ogni anno la popolazione mondiale cresce di 73 milioni di persone, in Asia il cambio di abitudini alimentari verso una dieta basata su proteine animali richiede dai 3 ai 5 chili di mangimi per chilo di carne prodotta, il mantra del carburante bio ha trasformato un terzo dei raccolti di cereali negli Usa in etanolo e l’urbanizzazione selvaggia in Asia ha eliminato campi coltivabili per lasciare posto a complessi urbani: ci sono tutti gli ingredienti per una bella crisi delle forniture alimentari globali.
Siamo ai margini della sicurezza alimentare, come ha scoperto suo malgrado il Nord Africa in queste settimane ma, per favore, smettiamola con la favoletta di Hosni Mubarak affamatore di popolo. Se i prezzi sono alle stelle, chiedete conto ai soggetti sopra elencati: gli speculatori, si sa, salgono in giostra e scendono. Ma non hanno possibilità di stoccare rame e grano: gli Stati, sì. Magari utilizzando fondi e banche d’affari che poi pubblicamente condannano come avvoltoi. È il trionfo della geofinanza: ve ne parlo da almeno un anno e mezzo.