La costa meridionale del Mediterraneo è un’area di interesse vitale per l’Italia sul piano economico e della sicurezza. La sua eventuale destabilizzazione colpirebbe pesantemente il nostro export e metterebbe a rischio gran parte del nostro rifornimento di gas e petrolio, con esiti depressivi.

Se questa, poi, comportasse l’emergere di regimi islamici aggressivi, l’Italia si troverebbe minacciata direttamente e costretta ad aumentare la spesa militare, con la complicazione sia morale sia tecnica del controllo di milioni di islamici potenzialmente eccitabili entro le proprie frontiere. Pertanto è prioritario capire cosa, e perché, stia succedendo e quale sia la soluzione migliore per i nostri interessi.



L’inflazione alimentare, su un substrato di condizioni economiche in peggioramento per la parte più povera e giovane delle popolazioni, ha innescato moti di protesta, inizialmente spontanei, in Tunisia, Algeria, Marocco ed Egitto. Queste nazioni sono guidate da regimi semidemocratici autoritari, molto sostenuti dall’America – e dall’Italia – nell’ultimo decennio affinché riuscissero a contenere l’ondata dello Jihadismo islamico che aveva l’obiettivo di abbatterli.



In particolare, l’America ha “amicizzato” le Forze armate di queste nazioni, oltre che di Giordania, Arabia saudita, Libia, Yemen, ecc., per rafforzare il controllo delle insorgenze. La priorità della sicurezza ha fatto chiudere un occhio sulla degenerazione oligarchica dei regimi, in particolare quello tunisino ed egiziano. Così questi si sono trovati sempre meno capaci di rispondere alla domanda di ricchezza e giustizia sociale che emergeva da popolazioni arabe in via di rapida modernizzazione, secolarizzante, con un’alta densità di giovani scolarizzati, ma senza prospettive.



Ciò ha posto all’America il problema di come mantenere in vita regimi filo-occidentali senza più capacità di consenso, in fretta per evitare che i movimenti islamici, per altro spiazzati dai moti secolari, ne prendano la guida. La soluzione in atto è la seguente: istruire o assecondare i militari delle nazioni più a rischio affinché sostituiscano i leader, ma salvino l’assetto del regime, rendendolo riformista.

 

Tale modello è in applicazione sia in Tunisia, sia in Egitto. I militari si sono messi a garanzia delle folle in sommossa contro l’azione repressiva delle milizie dei dittatori, hanno defenestrato quello tunisino e, di fatto, commissariato quello egiziano, mettendosi in una posizione di gestori della transizione. Algeria e Marocco resteranno stabili perché i loro regimi, pur autoritari, sono evoluti.

 

La prima è ricca di petrolio, con programmi efficaci di sviluppo, e sarà in grado di finanziare meglio il consenso. Così la Libia, almeno per un po’. In Giordania la monarchia, per altro molto sovvenzionata per il suo ruolo di moderatore nel conflitto arabo-israeliano, resta solida. In Tunisia il modello di transizione detto sopra sta funzionando. Resta l’incognita dell’Egitto, con il problema che se lì, nazione politicamente complessa e non petrolifera, il modello non funzionasse, allora la sua destabilizzazione e probabile islamizzazione innescherebbe un effetto domino nell’area.

 

In base a questa analisi, l’interesse italiano coincide con quello americano, sostenuto dalla recente posizione dell’Europa, di farlo funzionare, favorendo una transizione gestita dai militari. Se riuscirà, ed è probabile pur non certo, poi bisognerà capire meglio la sorpresa della domanda di modernità secolarizzante da parte delle popolazioni arabe, sostenerla e trarne vantaggio geoeconomico prima di altri competitori.

 

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