Scusate un secondo: cosa sta succedendo in Egitto? Fino alla scorsa settimana il paese sembrava sull’orlo della guerra civile, le piazze ribollivano, morti e feriti per le strade, Mohamed el-Baradei aveva dato tre giorni a Hosni Mubarak (quando si sa che, almeno per bon ton, anche alle domestiche ne si danno otto per fare i bagagli), gli Usa spingevano diplomaticamente come pazzi per una transizione lampo che comprendesse un ruolo per i Fratelli musulmani.
E ora? Cos’è tutta questa calma? Cos’è questa riflessività? Semplice, due motivi. Primo, Israele ha giustamente fatto sapere che non permetterà che venga messa in discussione la sua sicurezza per decisioni prese a tavolino a migliaia di chilometri. Secondo, l’Egitto instabile è una miniera d’oro per fare affari. Negli ultimi otto giorni ho letto almeno cinquanta report sul paese dei Faraoni e sulle opportunità che il suo attuale “stato di salute” concede, soprattutto grazie alla chiusura della Borsa che ha gonfiato il giro d’affari degli Etf, preparando una bolla pronta a scoppiare.
Ma andiamo con ordine. I timori per la stabilità hanno portato il valore di titoli privilegiati a livelli bassissimi grazie al sell-off da panico, nonostante i forti fondamentali di queste azioni e quelli dello stesso paese: popolazione giovane, posizione geografica strategica, solide basi per un gran numero di aziende. Un solo timore: se il futuro governo dovesse essere di ispirazione confessionale, il rischio di rinazionalizzazione di molti comparti si farà reale.
Ma si sa, pecunia non olet. Tanto più che dopo i paesi cosiddetti Bric, l’Egitto è una delle mete preferite degli investitori internazionali, con un livello di denaro estero investito pari a 20 miliardi di dollari diviso tra equity e mercati a reddito fisso, stando a dati della Pictet Asset Management. Inoltre le banche sono molto liquide, con una ratio prestiti/depositi attorno al 50%: certo, il Pil che dipende per l’11% dal turismo non è un bel dato in caso di protratta instabilità, ma in alcune aree del paese, nei fatti, la situazione appare già stabile per serene vacanze.
Ci sono poi le vere ricchezze egiziane: oro, petrolio e gas. Per Stuart Thomson, capo economista alla Ignis Asset Management, «se a livello di Pil l’Egitto è globalmente irrilevante, pari a uno stato del mid-west statunitense, la sua importanza geopolitica è innegabile, grazie a quell’arteria fondamentale che è il Canale di Suez». Già. E se una crisi delle forniture petrolifere potrebbe significare rischi seri per le nazioni più sviluppate, l’instabilità garantisce grandi opportunità ai mercati. Stando a dati di ETF Securities, le commodities energetiche exchange-traded hanno visto un afflusso di 10 milioni di dollari in più nelle ultime due settimane, compresi gli ETC sul West Texas Intermediate.
Peccato che gli ETC offrono sì diversificazioni rispetto a portafogli focalizzati unicamente sull’equity, ma rischiano anche di performare in negativo rispetto al prezzo del petrolio, visto che non investono direttamente in oro nero ma in futures: insomma, il profitto è dato dalla vendita del contratto prima della sua scadenza a un prezzo prefissato al fine di reinvestire in più futures qualsiasi sia il prezzo corrente. Solo che se il prezzo dei futures sale oltre la vita stessa del contratto, si dovrà pagare di più per comprarne di nuovi rispetto a quanto sborsato per quelli venduti a un prezzo prefissato prima. In parecchi si troveranno con le ditina bruciate tra pochi giorni. Fattacci loro.
Altri giochini simili i fondi li stanno facendo con il prezzo del cotone, di cui l’Egitto è un grande esportatore: ancora un po’ di rivolta e instabilità e il prezzo è destinato a salire ulteriormente. Che dire poi delle miniere, ad esempio Centamin Egypt, il cui titolo nella settimana conclusasi l’1 febbraio era nelle top ten sia delle azioni più vendute che più comprate di TD Waterhouse: le proteste non hanno minimamente intaccato l’operatività estrattiva d’oro, quindi il titolo oggi sembra destinato a salire, ma in caso di scioperi o, peggio, nazionalizzazione anche parziale, qualcuno potrebbe rimpiangere i consigli ricevuti.
Paradossalmente, servirebbe un po’ più di instabilità, una ripresina delle proteste visto che per Malcolm Gray, manager del fondo Investec Africa Opportunities, «un sell-off aggressivo a causa dei timori politici proverebbe un’opportunità di acquisto molto attraente sul lungo termine». Titoli egiziani normalmente poco liquidi e trattati alla Borsa di Londra, come EFG-Hermes, Orascom Telecom, Commercial International Bank, Orascom Construction, Talaat Moustafa ed Ezz Steel sono oggi nel mirino dei grandi trader, pronti a comprarsi a prezzo di saldo aziende sane e profittevoli, oltretutto pochissimo dipendenti dal mercato interno.
Inoltre, il mercato equity sa mantenere i nervi saldi in casi di instabilità politica, come ben dimostrato dall’Afghanistan nel 1999, dal Venezuela nel 2002 e dalla Thailandia nel 2006 e nel 2010. Certo, esiste sempre il rischio di un colpo di Stato militare in stile turco, ma per Zin Bekkali, amministratore delegato di Silk Invest, azienda che offre fondi focalizzati su Africa e Medio Oriente, «per gli investitori questa ipotesi potrebbe significare il dover scendere a patti con una volatilità significativa, ma come nel caso della Turchia, la loro pazienza sarà ricompensata». Inoltre, come anticipato, questi giorni sono di vera e propria gloria per gli Etf, soprattutto il Market Vectors Egypt ETF (EGPT), attivissimo grazie alla chiusura della Borsa del Cairo.
Prima dello scoppio delle proteste, l’EGPT gestiva circa 12 milioni di dollari e trattava una media di 7500 azioni al giorn0: martedì scorso le azioni passate di mano in un giorno sono state un milione!
Un swing al rialzo dei volumi che può essere rischioso, visto che Van Eck (emittente leader di ETF quotati), ad esempio, ha sospeso le creazioni dell’ETF: questo non significa che la trattazione nel fondo sia bloccata, ma che gli investitori internazionali autorizzati (AP) non hanno più l’abilità di creare nuove azioni per incontrare la domanda crescente degli investitori. In parole povere, l’EGPT sta contrattando come un fondo chiuso.
Nonostante i volumi trattati indichino come l’EGPT sia una security molto liquida, il fondo è stato recentemente trattato a un alto premio rispetto al valore netto dell’asset, condizione dovuta all’incapacità di prezzare gli assets sottostanti del fondo.
Con le contrattazioni ufficiali sospese, i prezzi usati per calcolare il NAV (Net Asset Value, è il valore effettivo di un ETF: questo importo viene calcolato attraverso il valore del paniere delle azioni che replicano l’indice sottostante più i dividendi) erano vecchi di almeno una settimana e quindi non tenevano conto e non riflettevano i significativi sviluppi concretizzatisi dalla chiusura della Borsa. Insomma, chi comprava o vendeva l’EGPT altro non faceva che scommettere su quale livello aprirà il mercato quando le contrattazioni finalmente saranno riprese.
Visto che l’EGPT ha contrattato a premio e non a sconto, molti investitori credevano che la situazione sarebbe migliorata notevolmente nell’arco dei sette, otto giorni. Questa non è la prima volta che gli ETF sono utilizzati come veicoli per prezzare quando la contrattazione delle securities sottostanti è sospesa: lo scorso ottobre, ad esempio, un sorprendente report dell’USDA fece apprezzare i futures del granturco e le contrattazioni furono bloccate quando i prezzi schizzarono all’ammontare massimo consentito. Col mercato dei futures congelato, gli investitori si sono riversati sull’ETF del granturco basato sui futures, il CORN, utilizzandolo come un veicolo per prezzare: detto fatto, gli investitori predissero accuratamente l’apertura per i contratti sottostanti.
Solo che la situazione egiziana è ancora più bizzarra e rende ancora più complicata la prezzatura del suo ETF. Molti ETF utilizzano infatti le cosiddette in-kind creations (il cosiddetto meccanismo di creation/redemption in kind consente di minimizzare il tracking error, cioè la differenza di rendimento, positiva o negativa, tra l’ETF e l’indice benchmark di riferimento), atto che impone all’investitore istituzionale (AP) di ammassare le azioni sottostanti per creare nuovi titoli. Peccato che l’EGPT è l’unico ad offrire le cosiddette cash creations, ovvero consente all’AP di versare cash a Van Eck in cambio di nuovi titoli: l’emittente generalmente, a questo punto, investe il cash in azioni egiziani che integrano l’indice sottostante. Lo scorso venerdì L’EGPT ha ottenuto 12 milioni di dollari cash – raddoppiando di fatto la base – ma era incapace di “schierare” il capitale prima che i mercati chiudessero.
Questa incapacità si è sostanziata con il fatto che circa il 40% del portafoglio dell’EGPT, circa 10 milioni, sia bloccato in contanti e quindi il premio, attualmente al 12,5%, potrebbe essere considerabilmente più alto se il fondo fosse stato interamente investito in equities egiziane. Insomma, un gran casinò che si è sviluppato nell’arco di una sola settimana, un bazar che potrebbe bruciare le dita a molti oppure, nei fatti, fare le fortune di altri e, soprattutto, colonizzare ex ante l’Egitto e il suo nuovo governo visti gli sguardi attenti degli investitori alle galline dalle uova d’oro: miniere, petrolio, telecomunicazioni, edilizia (l’Egitto è uno dei pochi paesi che non ha minimamente risentito della crisi dei subprime).
Là fuori c’è un mondo infernale pronto a sfruttare ogni piccola occasione e, magari, è interessato a eterodirigerla: perché la Borsa chiusa così a lungo? Perché questo rallentamento della transizione? Perché il dietro-front degli Usa? È il mercato a muovere il mondo, aveva ragione Gordon Gekko quando in Wall Street diceva: «Io non creo niente: io posseggo. E noi facciamo le regole: le notizie, le guerre, la pace, le carestie, le sommosse, il prezzo di uno spillo. Tiriamo fuori conigli dal cilindro mentre gli altri, seduti, si domandano come accidenti abbiamo fatto. Non sarai tanto ingenuo da credere che noi viviamo in una democrazia, vero? È il libero mercato».
Già. Applicate questa logica a una possibile riacuttizzazione della crisi del debito sovrano europeo o a un picco dell’inflazione o al downgrade giapponese o a un rialzo dei tassi o al crollo di una banca Usa: ciò che avete letto sta accadendo alle spalle del destino e del futuro di un paese che conta come una pulce o poco più. Fatevi due conti.