Tra un mese esatto, i membri dell’Eurozona affronteranno il vertice più delicato degli ultimi anni. Sul tappeto, infatti, ci sarà una sorta di ultimatum renano, redatto dalla Germania con il pieno assenso di Nicolas Sarkozy, alla ricerca di prestigio in Europa per sostenere una poltrona che in patria traballa.

Cari signori, dirà in sintesi Frau Angela Merkel, tra mille difficoltà sono riuscita a far digerire all’opinione pubblica tedesca la decisione di sostenere, con quattrini nostri, le sorti dell’area euro. Ma in cambio voi vi dovete prendere impegni precisi in materia di: a) tetto al deficit di bilancio, meglio se con una garanzia costituzionale; b) riforma del sistema pensionistico, con una soglia di uscita paragonabile alla nostra (67 anni); c) armonizzazione della tassazione delle imprese. Prendere o lasciare. Inutile gridare alla sovranità violata.



È facile che, alla fine delle trattative, l’ultimatum sarà in qualche maniera addolcito o comunque rivisto. Ma la sostanza non cambia: per dare garanzie all’unione monetaria occorre gettare le basi per l’unione economica. È questa la cornice in cui va giudicata la mini manovra del governo Berlusconi. Il primo, forse timido passo verso un’agenda dello sviluppo dopo due anni esclusivamente passati a proteggere il fortino della finanza pubblica, anche a costo di lesinare le spese più ovvie e necessarie.



Certo, dietro la mossa ispirata da Giuliano Ferrara ci sono ragioni politiche più immediate, scandite dall’emergenza giudiziaria, piuttosto che da quella contabile. Ma l’ombra europea, o meglio tedesca, si fa comunque sentire. Soprattutto perché, a fronte di una Penisola che non cresce o cresce poco, la locomotiva tedesca marcia a pieno regime. E il divario in termini relativi aumenta: una grossa ipoteca, per quel che ci riguarda, sull’unità economica del Continente.

Insomma, esiste un quadro noto da tempo, e cioè che le condizioni della finanza pubblica non consentono di sostenere una politica espansiva. Ma esiste anche un’emergenza nuova: non basta difendere, con alterna fortuna, la diga del debito pubblico. Occorre pure tornare a investire. Anzi, visto che non si può spendere, creare le premesse perché lo facciano i privati. O la stessa Unione europea, i cui fondi sono al palo da anni (22 miliardi circa per il Mezzogiorno). Impresa improba, di questi tempi: basti pensare alla parabola della Fiat, che ha ormai avviato l’operazione di sganciamento del quartier generale dal Bel Paese.



 

Per conseguire il risultato, con il portafoglio vuoto, Berlusconi ha deciso di muoversi su due piani: una manovra a lungo termine, basata sulle riforme costituzionali; un pacchetto di misure buone a sbloccare fondi pubblici a vantaggio delle grande infrastrutture e delle Pmi. Misure modeste, tuona il leader del Pd, Pierluigi Bersani, che sono una semplice “diversione”: con provvedimenti del genere, aggiunge, non si muove che lo 0,15% del Pil, ad andare bene. Altro che l’1,5% promesso dal premier. Misure modeste, ma comunque utili, si può ribattere. Che vanno in una giusta direzione.

 

Ma chi ha ragione? Al di là dell’entità della manovra, davvero poca cosa rispetto alle necessità, o del drammatico contesto in cui vanno a cadere (non ci si può stupire se un premier accerchiato non riesce ad imporre la sua legge nemmeno sulle pompe di benzina), c’è da chiedersi se la terapia, basata su liberalizzazioni, libertà di impresa e fiscalità di vantaggio vada nella giusta direzione. Le perplessità, al proposito, non mancano.

Per carità, le liberalizzazioni sono importanti. Anzi urgenti. E fa piacere prender atto che il Partito Democratico ha deciso ieri di sfidare il Governo su questo terreno. Ma liberalizzare non basta. Non disperdiamoci dietro riforme più o meno alla moda: il ministro Pierluigi Bersani impegnò le sue energie nel famoso lenzuolo con esiti alterni. Non riuscì a far la rivoluzione del taxi, così come Berlusconi non riuscirà, probabilmente, a ottenere risultati migliori sul fronte delle pompe di benzina.

 

Ma nello stesso periodo i governanti tedeschi riuscirono a ridare competitività all’industria con un pacchetto di riforme fiscali e di politica economica nemmeno studiate all’epoca dai politici nostrani. Intanto, nelle fabbriche, passava quel principio dei contratti aziendali che secondo la Bundesbank è la vera ragione del rilancio dell’economia d’oltre Reno.

 

Nell’attesa occorrono misure provvisorie in grado di garantire la riapertura dei cantieri, sbloccando fondi già stanziati spesso da parte della stessa Ue, o che diano una boccata d’ossigeno ai consumi, cioè le vere emergenze per buona parte dell’industria italiana, quella che non esporta. Tutto il resto è solo contorno. Ma, di questi tempi, forse non si può chiedere di più.