Il momento della verità è arrivato. Quest’oggi l’Ufficio di statistica britannico renderà noto il dato sull’inflazione per il mese di gennaio e le previsioni generali sono quelle di un raddoppio netto rispetto all’obiettivo prefissato dalla Banca d’Inghilterra del 2%. Insomma, dopo il dato drammatico di fine gennaio, con la crescita britannica nel quarto trimestre del 2010 al -0,5% e l’inflazione al 3,7%, il tema inflattivo torna a farsi sentire Oltremanica e con esso il dibattito sulla politica da adottare in fatto di tassi d’interesse, fino a oggi un tabù, poiché un seppur minimo innalzamento veniva letto come un freno mortale alla ripresa.
Quale ripresa? – verrebbe, però, da chiedersi. I prezzi alla produzione, infatti, sono saliti del 13,4% su base annua a gennaio, il picco maggiore dall’ottobre 2008, a causa dell’aumento dei prezzi di petrolio e altri materiali importati. La stretta è talmente forte che le aziende hanno alzato i loro stessi prezzi dell’1% in un solo mese – raddoppiando le previsioni – e del 4,8% lo scorso anno, dato peggiore da maggio.
Per Samuel Tombs, capo economista per il Regno Unito alla Capital Economics, «questo dato ci ricorda, nonostante la decisione di appena pochi giorni fa della Bank of England di lasciare invariati i tassi, che il rischio di un picco degli stessi nel breve termine rimane un’ipotesi molto viva». Anche perché gli analisti avevano preventivato un aumento del prezzo alla produzione su base annua al 12,5% a gennaio, poi rivisto al 12,9%: nemmeno questa ulteriore, pessimistica cautela ha saputo raccontarci la verità. L’aumento month-to-month tra dicembre e gennaio è stato dell’1,7%, riflesso diretto dell’aumento del prezzo di petrolio, metalli e altri materiali importati. Che fare, quindi?
Giovedì scorso, come anticipato, la Bank of England ha lasciato i tassi invariati allo 0,5%, ma ora sembra che la situazione stia sfuggendo di mano: la scelta resta tra minare, come qualcuno pensa, l’aspettativa di timida crescita alzando i tassi oppure mantenerli pressoché a zero, come si fa da due anni a questa parte, sfidando però un’inflazione potenzialmente monstre. Un sondaggio condotto da Reuters tra 63 economisti di varie istituzioni ha dimostrato un atteggiamento molto simile a quello dei membri del Monetary Policy Committee, visto che nessuno di loro ha predetto un aumento – anche minimo – dei tassi. Di più, tre quarti dei 49 economisti che hanno risposto alla domanda, ha predetto un aumento del costo del denaro non prima della fine dell’anno, mediamente a novembre.
Non la pensano così, invece, le grandi banche, visto che Deutsche Bank, Ubs, Nomura e Morgan Stanley parlano nei loro report di aumento entro la fine di settembre, con un ritorno graduale a livelli più neutrali nel 2012. Per molti economisti, l’aumento dell’Iva imposto a gennaio dal governo britannico ha dato vita a un combinato con l’aumento di cibo e commodities, tale da giustificare un ulteriore aumento a medio termine dell’inflazione anche al di sopra dell’attuale dato del 3,7%. Per Andrew Goodwin, senior economic advisor alla Ernst&Young, assicurare la crescita economica rappresenta un obiettivo più grande della lotta all’inflazione, almeno nel breve termine: «La questione cardine è quella della severa contrazione in atto e la Bank of England dovrebbe mantenere i tassi al minimo per depotenziarne l’effetto sull’economia. Pensiamo che per la metà di quest’anno la ripresa sarà sufficientemente forte da permettere una graduale normalizzazione dei tassi d’interesse».
Non la pensa così Simon Ward, capo economista alla Henderson Global Investors, che con ilsussidiario.net scommette su un aumento dei tassi già dal mese prossimo come risposta al dato, citato in precedenza, della crescita negativa nell’ultimo trimestre del 2010. «Non sarei sorpreso – dichiara Ward – se già il prossimo mese vedessimo un voto molto incerto all’interno del Monetary Policy Committee, qualcosa come 4-4-1 e la propensione da parte della maggioranza dei delegati per un immediato aumento». Più pessimistiche le previsioni di altri analisti, secondo cui dovremo fare i conti con anni di crescita debole, con banche e aumento del prestito bancario altrettanto deboli.
Il problema, in sostanza, non è dato dallo scontro tra scuole di pensiero, né dall’attitudine dei protagonisti, ma dall’inestricabilità di questa recessione, tutt’altro che normale e quindi poco leggibile attraverso la lente delle politiche monetarie classiche. Il timore, però, è che nonostante la Bank of England difficilmente tornerà a stampare moneta nel 2011, dando vita a un nuovo programma di quantitative easing, il dato inflazionistico in questo ambiente rischia di toccare entro pochi mesi il 5%: unendo questa criticità al tasso di disoccupazione in continuo aumento e al taglio contemporaneo di consumi privati e spesa pubblica, appare difficile anche armandosi di ottimismo a oltranza, intravedere una qualsivoglia, possibile ripresa.
Se oggi, come appare scontato, il dato inflattivo sarà effettivamente del 4%o, il governatore della Bank of England, Mervyn King, si vedrà costretto a scrivere la quinta lettera di fila al ministro delle Finanze, George Osborne, nella quale chiederà ancora conto di questo sforamento rispetto alle previsioni della banca centrale. Un puro esercizio di stile, retorico quanto inutile, che non potrà però dilazionare all’infinito il vero tema sul tappeto: aumentare o meno i tassi di riferimento, ovvero mettere la mordacchia contemporaneamente all’inflazione e alla speculazione innalzando il prezzo del denaro? Di più, l’indice dei prezzi al consumo, che include i costi legati all’abitazione, dovrebbe salire addirittura al 5% a gennaio, un livello che non si conosceva dal novembre 2008.
Così Brian Hilliard, economista presso Societe Generale a Londra, spiega il dato: «Soltanto il prezzo della benzina è salito del 5,1% a gennaio, aumento che da solo garantisce un +0,1% dell’inflazione. A questo uniamo l’aumento dell’Iva e del prezzo di cibo e riscaldamento ed ecco che quello 0,3% necessario a raggiungere il dato del 4% è presto acquisito. Il rischio, in realtà, è che l’incremento sia ancora superiore». Domani, poi, sarà la stessa Bank of England a rendere noto il proprio report sull’inflazione e appare scontata una rivisitazione al rialzo delle stime per la quinta volta di fila: la maggior parte degli economisti britannici parla ormai a chiare lettere di inflazione al 5% nel corso dell’anno e in diminuzione solo verso novembre.
Ovviamente, l’incidenza dell’inflazione rischia di andare a intaccare anche le previsioni di crescita per l’economia. Per Alan Clarke, economista presso BNP Paribas, «visto il dato sconfortante della crescita nell’ultimo trimestre del 2010, appare impossibile che la Bank of England possa confermare la sua previsione al 2,6% per quest’anno. Penso che dovrà operare una revisione al ribasso al 2%». Nei fatti, la stessa politica di austerity posta in essere dal governo britannico sarà vanificata dalla montante inflazione. Lo dicono a chiare lettere i mercati, visto che il rendimento sul bond decennale britannico è salito di mezzo punto percentuale dall’inizio dell’anno e di un punto da settembre del 2010, raggiungendo il 3,87%. E questo dato non è meramente statistico, visto che un aumento di un punto percentuale sul rendimento dei bond corrisponde a 15 miliardi di sterline in più di costo di finanziamento del debito nei prossimi cinque anni: solo per il 2015, questo dato è già salito a 68,4 miliardi di sterline dai 63,1 delle previsioni governative.
E non è un caso che i mercati abbiano già cominciato la politica di de-couple dalla politica della Banca d’Inghilterra, con i futures sui tassi che prezzano una prima mossa a maggio raggiungendo un aumento totale dello 0,75% per la fine dell’anno. Insomma, nonostante parlando a Newcastle la scorsa settimana, Mervyn King abbia detto chiaramente che «l’inflazione è quasi interamente importata dall’estero, quindi un aumento dei tassi potrebbe far poco sul fronte del suo congelamento», appare ormai ineluttabile un aumento almeno dello 0,25% ad aprile o, al massimo, a maggio: se per caso il dato odierno dovesse sforare il 4%, più aprile che maggio.
Il problema è che, nonostante il tasso inflattivo nel Regno Unito stia crescendo a velocità doppia rispetto all’Europa continentale e agli Usa, in caso di aumento dei tassi da parte della Bank of England, anche la Bce dovrà cominciare a porsi seriamente la questione per non dare vita a un pericoloso disallineamento del costo del denaro rispetto a un partner che, pur non appartenendo all’area euro, «gioca comunque nel giardino casa», come ricorda Simon Ward. Nel bollettino diffuso due giorni fa dall’Eurotower, infatti, la Banca centrale europea giudicava l’attuale livello dei tassi d’interesse nell’Eurozona «ancora adeguato», ma riteneva che fosse necessario seguire «con molta attenzione l’evoluzione dei prezzi, che denotano pressioni al rialzo nei diciassette paesi dell’euro». L’istituto di Francoforte, inoltre, richiamava anche i governi a dare «piena attuazione ai rispettivi piani di risanamento» e, laddove necessario, chiedeva che venissero «prontamente applicate ulteriori misure correttive». Sostenibili, in un quadro come quello attuale di pressione inflazionistica al rialzo, crescita debole e debito pubblico alle stelle?
Per molti, un aumento dei tassi nell’eurozona potrebbe sì frenare un po’ la ripresina in atto, ma avrebbe un duplice effetto positivo: placare i corsi inflazionistici al rialzo e drenare liquidità in eccesso dai mercati, radice delle speculazioni in atto. A quel punto, toccherà ai governi porre in essere misure fiscali tali da evitare che il rialzo dei tassi sia pagato indiscriminatamente da tutte le categorie. Oggi più che mai, i dati che giungeranno da un paese non in area euro saranno dirimenti per l’eurozona. L’ardua sentenza poi toccherà alla Bce, con i governi che per ora restano pericolosamente alla finestra. La Gran Bretagna è in piena stagflazione, ovvero crescita piatta (se non negativa) e inflazione alta: sicuri che questo rischio non incomba anche su di noi, nonostante il mantra dei tassi a zero per favorire la presunta ripresa?
È di ieri la notizia che il debito pubblico italiano è cresciuto a fine 2010 del 4,5% rispetto a un anno prima, in base ai dati della Banca d’Italia: nel dettaglio, l’ammontare del debito pubblico italiano si è attestato a fine dicembre 2010 a quota 1.843,2 miliardi, rispetto ai 1.763,9 miliardi dello stesso mese del 2009. E sempre in tema di debito pubblico, ieri il Tesoro ha collocato nuovi BTp (Buoni del Tesoro poliennali) con i rendimenti dei titoli a cinque anni messi in asta saliti però al 3,77%, 10 punti base in più rispetto all’ultima analoga asta, mentre per i 1,676 miliardi di BTp a 30 anni, il rendimento pagato è stato del 5,51%.
In Italia, poi, l’inflazione a gennaio era al 2,1% su base annua, il dato più alto dal 2008, con un aumento mensile dello 0,4% contro lo 0,3% delle previsioni e lo stesso Fondo Monetario ha detto chiaramente che il dato inflattivo del Belpaese sarà superiore alla media europea per tutto l’anno in corso. Proprio sicuri di non doversi porre il problema? Peccato, però, che noi non abbiamo più in mano la leva monetaria e dei tassi: dipendiamo da Francoforte. Dio ci aiuti.