Molte imprese italiane ingaggiate nell’area araba-mediterranea temono l’instabilità dell’area e un grave danno. In realtà, è più probabile che l’area resti stabile, a opportunità crescenti. E per argomentarlo lasciatemi aggiornare un’analisi già qui offerta in precedenza.
Sarebbe sviante interpretare i moti popolari nelle nazioni arabe del Mediterraneo come un’ondata rivoluzionaria democratizzante, o islamizzante, “dal basso”. In “basso” si è accesa una protesta popolare dovuta all’inflazione alimentare e alla disoccupazione crescente dei giovani. Ciò ha dato l’occasione ai militari di usare tale movimento per sostituire le teste dei regimi.
Perché in Tunisia e in Egitto? Non essendo nazioni petrolifere, hanno meno risorse per finanziare il consenso. E ciò ha reso più ampia la protesta. Inoltre, in ambedue le nazioni il clan al potere è diventato troppo rapace riducendo i guadagni di altri oligarchi e dei militari coinvolti nell’economia. Tali èlite, insoddisfatte, hanno manovrato i moti di piazza. In modo particolare in Egitto, ma anche in Tunisia, i vertici militari sono connessi al Pentagono che da un decennio li finanzia per farli convergere nella lotta al terrorismo.
Washington ha osservato che ormai i regimi erano troppo instabili sia in alto, sia in basso e hanno o istruito o assecondato i militari per condurre il cambiamento delle teste del regime, per salvare i regimi moderati e filo-occidentali secolarizzati e non farli cadere in mano a forze islamiche estremiste. In sintesi, si è trattato di golpe militari assecondati dall’America, travestiti da moti democratici per renderli più accettabili.
Gli eventi in Tunisia ed Egitto hanno eccitato le folle in Algeria, Marocco, Libia, Giordania e Yemen, facendo temere un contagio destabilizzante nell’area. Ma l’Algeria ha molto petrolio per finanziare il consenso e il regime, pur tese le relazioni tra militari e oligarchia legata all’autocrate, è sostanzialmente solido e compatto nonché molto modernizzante, con la presenza di una classe media secolarizzata e benestante.
La Giordania non ha petrolio, ma la sua stabilità è fattore essenziale per tenere congelato il conflitto palestinese- israeliano e quindi non ha problemi a ricevere finanziamenti per tenere il consenso. Lo Yemen, dove Al Qaeda opera con una sua forza armata esplicita, è un caso a parte, di guerra. Il Marocco non ha petrolio, ma il suo mercato interno è piuttosto evoluto e il regime modernizzante con legami privilegiati con l’America e con la Francia, pur i secondi decrescenti.
La Turchia, impegnata nel consolidamento di un’area economica con Iran e Siria e con una postura neoimperiale, non sta giocando partite destabilizzanti nel resto del Mediterraneo, pur attenta a cogliere vantaggi dalla situazione. L’Iran lo vorrebbe, ma la sua natura sciita ne riduce l’influenza nell’area araba-sunnita. Comunque presidiata dall’Arabia Saudita con l’interesse a contenere l’Iran, al punto di essere alleata di fatto con Israele per la stabilizzazione del teatro.
È presto per dire se la transizione di potere in Egitto e Tunisia avrà un esito stabilizzante, ma è molto probabile che non vi sarà né contagio nell’area, né una salita al potere di forze islamiche estremiste nelle due nazioni. Ed è anche probabile che, pur dopo un periodo di incertezza e disordini, Tunisia ed Egitto troveranno stabilità.
Pertanto le imprese italiane possono continuare le loro attività nell’area, compresi Egitto e Tunisia, e puntare all’espansione, particolarmente in Algeria e Marocco. Tanto più se l’Italia aumenterà, come già sta facendo in intelligente silenzio, il suo profilo di potenza stabilizzatrice nell’area.