Nel 1956, il sociologo Banfield, al termine di un’esperienza sul campo di nove mesi in un paese della Basilicata, coniò il concetto di “familismo amorale”, per caratterizzare una situazione di arretratezza nella quale i criteri della morale rimanevano confinati all’ambito familiare, ma ancora non riuscivano a estendersi ai rapporti con la comunità, nella quale il vincolo della sopravvivenza spingeva, invece, verso comportamenti neutri e amorali. Da allora, la situazione si è molto trasformata e la rete di rapporti che oggi collegano individui e famiglie all’interno delle medesime comunità è diventata una categoria sociale ed economica grazie alle analisi del sociologo Putnam, anch’egli americano, condotte sulla società italiana.
Nonostante ciò, la celebre formulazione di Banfield continua a essere la lente attraverso cui si analizza la società italiana e, più in generale, l’istituzione della famiglia, perché, come suggeriscono Alesina e Ichino ne L’Italia fatta in casa, rappresenta un “messaggio generale sui rischi che una società corre se affida alla famiglia un ruolo tale da inibire la formazione di capitale sociale” (p. 12). Appare quindi utile confrontare la visione della famiglia prevalente in Italia e nei principali Paesi europei – Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Svezia, oltre che negli Stati Uniti -, il che è possibile grazie all’ormai consolidata analisi condotta dal World Value Survey, nel cui ambito due sezioni sono specificamente dedicate al lavoro e alla famiglia.
Per illustrare in modo vivido la situazione che emerge, è utile porre alcune delle domande proposte al campione di intervistati nei vari Paesi: ad esempio, qual è il Paese nel quale il valore della famiglia viene considerato come “molto importante”? La risposta è: gli Stati Uniti, con il 94,6%, seguiti dalla Gran Bretagna, con il 93,6% (Italia 93,3%). Di fronte all’affermazione “il matrimonio è una istituzione obsoleta”, qual è il Paese in cui vi è il più elevato disaccordo rispetto a questa affermazione? La risposta è: gli Stati Uniti, con l’87,3%, seguiti dall’Italia, con l’80,8%.
Un’affermazione molto più specifica e problematica è se “l’essere una donna di casa è appagante”: rispondono con un “fortemente a favore” il 31,6% delle intervistate negli Stati Uniti e il 22,2% in Gran Bretagna, mentre la quota scende al 10,8% in Italia e Svezia. Ma questo non significa che le donne sottovalutino le loro capacità professionali, poiché di fronte all’affermazione “gli uomini sono manager migliori delle donne” sono “d’accordo”, nell’intero campione dei Paesi, solo l’11% delle donne, ma anche solo il 21% degli uomini. È analogo il giudizio se al posto dei manager si considerino i politici: sono “d’accordo” il 16% delle donne, ma anche solo il 25% degli uomini.
L’indagine World Value Survey ha un campione limitato e i suoi risultati vanno presi con giudizio, ma pur con questa cautela pare di dover concludere che, da un lato, l’istituzione della famiglia è un riferimento centrale della vita individuale in tutti i grandi Paesi, mentre, dall’altro, proprio gli Stati Uniti sono forse il Paese nel quale sono maggiori i tratti di amoralità di cui teorizzava Banfield. Forse non è un caso che l’intuizione di capitale sociale, cioè l’importanza cruciale di relazioni sociali che varchino la famiglia per coinvolgere la comunità, sia nata con Coleman e Putnam.
Sul piano economico, la famiglia rappresenta, insieme all’impresa, la fondamentale unità di decisione: le imprese domandano lavoro alle famiglie e offrono beni, mentre le famiglie domandano beni e offrono lavoro alle imprese. La decisione di un’impresa, come persona giuridica, è in realtà la decisione di una rete di persone le cui prospettive economiche e professionali dipendono dal conseguimento di un obiettivo comune, nel quadro di una struttura economica gerarchica e di comando. L’impresa è, come è stata definita con una felice espressione, una “scatola nera”, di cui nel corso degli anni si è compreso sempre di più e meglio, e la cui complessità cresce al crescere della sua dimensione. La “scatola nera” della famiglia è stata esplorata solo in tempi più recenti e, nonostante la sua minore dimensione, non con minori difficoltà, soprattutto quando si tenga conto della presenza dei figli.
Sono tuttavia differenti e complementari le ragioni sottostanti alle decisioni di imprese e famiglie: per le imprese, il criterio è quello dell’efficienza, mentre per le famiglie è quello del bisogno. In altre parole, l’offerta di lavoro dei componenti sul mercato viene remunerata sulla base di criteri di efficienza, mentre la domanda per beni e servizi, e la sua distribuzione all’interno dei componenti della famiglia, avviene sulla base dei bisogni. In questo senso, la famiglia che funziona realizza l’obiettivo comunitario “da ciascuno secondo le proprie capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
La famiglia moderna è, per sua natura, un’unità decisionale democratica, nel cui ambito le decisioni sono prese congiuntamente: secondo la più recente indagine Istat sulla vita di coppia, per la decisione sulla gestione dei risparmi il peso dell’uomo è uguale a quello della donna nel 61% delle coppie, mentre per le decisioni riguardanti l’educazione dei figli il peso di entrambi è uguale nell’83% delle coppie. Nelle coppie più giovani (25-34 anni), il 22,1% delle donne ha almeno un conto corrente personale, il 47,3% un conto corrente cointestato e il 27,9% nessun conto corrente cointestato, pur essendovi un conto corrente intestato all’altro coniuge. Non si conoscono le ragioni di quest’ultima quota – se economiche o di mancanza di uguaglianza sull’accesso alle risorse comuni -, ma ciò non deve oscurare il fatto che sussiste per il 72% delle donne all’interno della coppia una capacità economica.
1I dati sui consumi nel corso della crisi ci segnalano come il maggior impatto negativo sia stato assorbito in modo rilevante dalle famiglie con due e più figli e da quelle con consumi “medi”, perché non abbastanza “povere”, ma non abbastanza “ricche” per attingere a un elevato stock di risparmi. È indubbio che, soprattutto per queste categorie di famiglie, un aumento delle disponibilità economiche sia necessario, in particolare se la domanda delle imprese offrisse maggiori opportunità di lavoro: così come la domanda di beni è l’altra faccia dell’offerta di lavoro, analogamente il reddito familiare è l’obiettivo di riferimento per le decisioni di consumo e di offerta di lavoro.
Quando nella coppia lavorano entrambi, all’obiettivo del reddito si aggiunge la domanda di un’assicurazione implicita rispetto al rischio di disoccupazione dell’altro coniuge, sia nel caso in cui entrambi lavorino, sia quando alla disoccupazione improvvisa di uno dei componenti la famiglia reagisca con una maggiore offerta di lavoro dell’altro: in modo analogo, la coppia può decidere razionalmente di assorbire nel bilancio familiare il costo, ovvero l’implicita tassa, per la cura dei bambini piccoli allo scopo di consentire la continuità della carriera lavorativa della madre e quindi anche un maggior reddito familiare futuro. A ciò si aggiunga che il non tener conto del reddito familiare potrebbe portare al risultato paradossale per cui all’aumento del reddito di un coniuge corrisponde una diminuzione dell’altro, con il possibile paradossale risultato che il reddito della famiglia rimanga invariato, ma con un maggior numero ore di lavoro.
Un sistema fiscale equo deve basarsi, sulla base della nostra Costituzione, sul principio di progressività della capacità contributiva, la quale dipende ovviamente dal numero di componenti che compongono il nucleo familiare. Se la base impositiva è individuale, come attualmente avviene in Italia, una possibilità è quella di intervenire con meccanismi di detrazione o esenzione: l’esperienza per il nostro Paese è su questo aspetto negativa, perché affidata al potere discrezionale della politica, sulla base delle esigenze contingenti del momento. Un esempio illuminante è il valore del limite di reddito per essere considerati a carico del nucleo familiare, che è rimasto invariato a 2.841 euro dal 1995 fino al 2010: ciò è causa di iniquità, oltre che di incentivo all’evasione fiscale per bassi redditi occasionali. Un ulteriore clamoroso esempio di discrezionalità negativa è stata la riallocazione di ben 8,5 miliardi a prezzi correnti, sottratti nel 1996 ai contributi per assegni familiari.
Una modalità alternativa è quella di ricostruire il reddito familiare imponibile attraverso un meccanismo di adeguamento basato sulle cosiddette scale di equivalenza (cioè l’idea che dove si mangia in tre si può mangiare anche in quattro) e una misura di povertà relativa: si tratta della proposta recente del cosiddetto Fattore Famiglia. Non entriamo nei dettagli tecnici sui problemi metodologici e applicativi che questo meccanismo comporta e ci limitiamo a osservare che se il sistema fiscale italiano si orienterà, in un qualche futuro, a criteri di equità orizzontale, allora il quoziente familiare, collaudato in Francia da mezzo secolo e di universale soddisfazione, rappresenta l’alternativa più efficace e semplice, e la semplicità è, in materia fiscale, una questione decisiva di democrazia.