L’Unione europea e i Governi (nonché i Parlamenti) dei singoli Stati membri dovrebbero chiedersi qual è il problema centrale che le società che li hanno eletti devono affrontare nei prossimi anni e lustri. Al momento, pare esserci una certa confusione sugli obiettivi di fondo dell’agenda: evitare insolvenze che mettano a repentaglio l’unione monetaria, impedire una scissione tra area dell’euro (o la parte centrale – “hard core” per utilizzare un termine anglosassone – dell’eurozona) e il resto dei 27, rilanciare l’economia in modo sostenibile e tale, al tempo stesso, da generare occupazione specialmente per alcune fasce (quali i giovani).
Quasi tutti coloro che sono in posizione di Governo o di Alta Amministrazione sanno che il problema centrale (da cui tutti gli altri derivano) è il “governo del declino” di una società a rapido invecchiamento. Già il 20% della popolazione dell’Ue a 27 supera i 65 anni di età. Secondo i calcoli di Giuseppe Carone e di Declan Costello del Fondo monetario internazionale, se la tendenza non cambia, il rapporto tra pensionati e lavoratori attivi nel 2050 nell’Ue sarà di due attivi per pensionato, invece che di quattro per pensionato come nel 2006; e sarebbero necessari almeno 30 anni di politiche “nataliste” per incidere sui tassi di fertilità.
Secondo William Frey della Brookings Institution, l’età mediana degli europei passerà dai 40 anni di oggi ai 52,3 anni del 2050, mentre allora l’età mediana degli americani sarà 35,4 anni . Secondo l’Ocse, appena il 39% degli europei nella fascia di età tra i 55 e i 65 anni lavora; se le previsioni di Carone e Costello sono corrette, la produttività multifattoriale è destinata ad abbassarsi. Se quelle di Frey sono azzeccate, Governi e Parlamenti avranno difficoltà enormi a fare elaborare, approvare e attuare riforme pur necessarie. L’esito complessivo non potrà essere che una riduzione radicale del valore aggiunto nei prossimi lustri. A una popolazione anziana, infatti, si associa quasi inevitabilmente un apparato produttivo obsoleto e una forte resistenza al cambiamento.
Lo spettro del declino dovrebbe essere la stella polare dell’Ue e dei singoli Governi dell’Unione, in quanto il governo del declino è molto più arduo del governo della crescita e comporta medicine amare, raramente popolari con l’elettorato. È alla luce del governo del declino che si dovrebbero analizzare programmi di stabilizzazione e riforma sia europei che nazionali. Ove ciò avvenisse, il “patto per la competitività” di matrice franco-tedesca, al centro in queste settimane di discussioni a livello sia dell’Ue, sia dei singoli Stati dell’Unione, apparirebbe in una luce differente da quella con cui viene presentato non solo dai proponenti, ma anche da gran parte della stampa d’informazione.
Il “patto” è un tentativo di affrontare adesso molti nodi che numerosi economisti europei, americani e asiatici avevano visto al momento della definizione del percorso della strada verso l’euro (pur non avendo piena consapevolezza della gravità della “questione demografica”), ma le cui voci sono state allora tacciate di anti-europeismo. Il tentativo ha due parti. Da un lato, al pari di come con l’accordo del Louvre del 1987, la Francia decise che per avere, e tenere, un franco forte si sarebbe dovuta agganciare alla politica monetaria decisa a Francoforte (dalla Bundesbank), oggi Parigi, unitamente a Berlino, chiede che i Paesi “laschi” (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e – nei corridoi delle riunioni internazionali lo si dice apertamente – Italia) adattino le loro strutture economiche a quelle dell’economia dominante: il punto centrale non è la regola “costituzionale” del pareggio di bilancio (l’art. 81 della Costituzione italiana è prova documentata del valore e della credibilità di tale regole), ma l’innalzamento a 67 anni dell’età minima per andare in pensione e l’abolizione delle indicizzazioni salariali.
Il Governo francese ben sa che queste “regole” possono essere accettate unicamente se parte di un “patto” paritario come quello del Louvre del 1987. Sono misure difficili da fare inghiottire (in Germania sono state strumenti per contenere i consumi e aumentare la produttività), ma che possono contribuire al miglior governo del declino, rendendone gli effetti meno duri e distribuiti più equamente.
Ci sono, però, anche misure che rischiano non solo di non risolvere e anche aggravare il problema immediato della minaccia d’insolvenza, ma pure di accelerare il declino. Marco Fioravanti e Claudio Vicarelli, su lavoce.info del 15 febbraio, illustrano con chiarezza che se applicate le regole più stringenti di bilancio porterebbero la Grecia a un fallimento analogo a quello dell’Islanda nell’ottobre 2008 e avrebbero conseguenze negative sulla crescita e sulla stabilità dei conti di Spagna, Portogallo e Italia.
A questi aspetti di breve periodo se ne aggiungono almeno due di più lungo periodo: l’armonizzazione tributaria e il riconoscimento dei titoli di studio (dando a tali titoli valore legale pure negli Stati dove non lo hanno) sarebbero macigni nei confronti delle trasformazioni delle economie reali. Aggravando il declino dell’Ue.