Finalmente. Con un “colpo di mano” dell’ultima ora, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha varato la norma più attesa dal sistema del risparmio gestito: dal primo luglio del 2011, in coincidenza con l’entrata in vigore della direttiva Ucits IV, anche i fondi di investimento di diritto italiano saranno tassati sul guadagno effettivamente realizzato e non più sul maturato.



In questo modo, viene cancellato un handicap che ha frenato in misura rilevante l’industria del risparmio gestito di casa nostra: nel resto del Continente, le plusvalenze vengono tassate quando si realizzano, cioè al momento della vendita della quota di un fondo. In Italia, finora, la tassazione è stata praticata ogni anno in base alle plusvalenze teoriche maturate. Di conseguenza, ogni anno il valore delle quote viene decurtato dalle tasse pagate sul maturato, mentre, se il valore scende, il risparmiatore accumula un credito di imposta che non viene, di norma, incassato.



Una disparità di trattamento che ha avuto responsabilità non piccole nella fuga dei capitali dai fondi di diritto italiano verso iniziative estero vestite e che minacciava di trasformarsi in un handicap mortale dalla prossima estate, a tutto vantaggio della concorrenza estera. Dal prossimo primo luglio, infatti, entrerà in vigore il cosiddetto “passaporto europeo” per i prodotti del gestito: per collocare un fondo comune in Italia, sarà sufficiente l’autorizzazione del Paese dove il fondo realizza la maggior parte dei suoi investimenti. Insomma, quel che resta dell’industria del risparmio gestito di casa nostra rischiava di essere travolto da concorrenti avvantaggiati sotto il profilo fiscale.



Anche in questo caso, come a proposito del diverso trattamento fiscale delle sofferenze e degli incagli bancari, la riforma appare di buon senso. Ma, finora, il ministro non aveva prestato attenzione alle richieste del settore, pur avallate dalla Banca d’Italia. Ora il cambio di rotta, cui non è certo estranea l’opera di lobbying di Domenico Siniscalco, l’ex ministro dell’Economia vicino a Tremonti che è riuscito, nelle vesti di presidente dell’Assogestioni, a centrare l’obiettivo che era stato fallito dal suo predecessore, Marcello Messori. Ma si farebbe torto a Tremonti a pensare che la scelta di venire incontro ai fondi sia il frutto di una simpatia personale o di lobby.

Il ministro, semmai, ha così dimostrato nei fatti di attribuire giusta importanza all’unica arma, cioè il risparmio delle famiglie, che potrà usare al vertice europeo per ammorbidire il diktat franco-tedesco sul futuro dell’Ue. Ben vengano norme più rigide sulla finanza pubblica, potrà dire il ministro, purché si tenga conto dello stato di salute delle banche italiane, assai meno esposte di quelle tedesche o francesi nei confronti del debito sovrano (o di assets tossici), e dello stato delle finanze private delle famiglie, assai più florido che in Spagna.

Un ragionamento sensato, ma con un limite: nel computo del risparmio, si dovrà tenere innanzitutto conto della ricchezza finanziaria delle famiglie. E si scoprirà che, causa il deflusso del risparmio verso sgr estere, l’Italia ha perso il controllo di quote significative della sua ricchezza. Con la prospettiva di una vera e propria voragine se passasse in mano di operatori internazionali il controllo di Pioneer, la società di Unicredit, o di Eurizon, sotto il controllo di Intesa.

 

Il “ravvedimento” fiscale di Tremonti, insomma, si inquadra in una realtà politica ben precisa in cui l’Italia, che al solito si è mossa con grave ritardo, cerca di salvare il salvabile. Fino a ieri, infatti, si è parlato di sistema del gestito in ben altra chiave; il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha insistito solo sul nodo dei conflitti di interesse, sollecitando l’uscita delle banche dal controllo delle sgr: peccato che di azionisti pronti a subentrare se ne siano visti pochi, salvo alcuni private equity che non sembrano entusiasti dell’investimento effettuato.

 

Il sistema bancario, di suo, non ha certo brillato per efficienza: non ci sono stati i necessari accorpamenti a livello di sistema, con il risultato che in Italia figurano ancora più di 300 sgr che fanno capo ad almeno 80 gruppi bancari. Un po’ come capita per le utilities comunali, l’impressione è che le sgr servano soprattutto a garantire gettoni di presenza ai consiglieri. Infine, il disinteresse del ministero, che ha sempre guardato con diffidenza alla perdita di un gettito seppur iniquo, incurante della fuga verso Dublino o il Lussemburgo. Il risultato è che oggi il sistema dell’asset management europeo indirizza il 3,1% dei suoi investimenti azionari verso il mercato italiano.

 

Certo, Piazza Affari è quella che è. Ma è dimostrato che anche ai tempi della globalizzazione un operatore nazionale guarda con più attenzione alle evoluzioni del mercato domestico che ad altri campi di intervento. Senza dimenticare che la fuga dei gestori comporta fuga di cervelli, di investimento in software, in impieghi ad alto valore aggiunto a tutto beneficio delle località interessate: basti un giro a Edimburgo o a Boston per toccare con mano la ricchezza che scaturisce dalle fabbriche del denaro risparmiato dalle famiglie.

Di tutto questo, con ritardo, si sta accorgendo la classe dirigente del Paese, distratta da ben altri problemi. E così, dopo anni di scarsa attenzione, in queste settimane c’è stato un forte risveglio d’attenzione, vuoi da parte della Consob (che per la verità dovrebbe occuparsi d’altro), vuoi da parte della Banca d’Italia che dei grandi azionisti bancari, a partire da Giuseppe Guzzetti, numero uno della Fondazione Cariplo, e di Angelo Benessia, presidente della Compagnia di San Paolo. Tutti a chiedere che si proceda alle nozze tra Eurizon e Pioneer, punto di partenza di un processo di aggregazione che sta suscitando altri interessi.

 

Non a caso, Cesare Geronzi, nella sua intervista al Financial Times, ha fatto balenare l’ipotesi che anche Banca Generali si accinga a svolgere un ruolo di aggregatore, mentre si profila un merger tra la sgr di area Mps con quelle di Bpm. Qualcosa si muove, infine. Ma sarebbe stato meglio pensarci prima, imitando quel che hanno fatto i cugini francesi o d’oltre Manica che oggi, assieme a Deutsche Bank, hanno in mano le fabbriche prodotto più efficienti cui sono costretti a ricorrere, pagando un alto pedaggio, gli operatori nostrani.