La Libia brucia e c’è poco da cercare strane ragioni occulte per spiegare quanto sta accadendo: gli Stati Uniti, in bancarotta tutt’altro che formale, hanno bisogno di un pretesto per attaccare l’Iran (la guerra è la miglior panacea per ogni depressione economica), quindi serve un nuovo assetto mediorientale che spazzi via gli elementi stabilizzanti (Mubarak e Gheddafi) e porti all’egemonia di Teheran sull’area. Tutto qui.
Ovviamente, nel breve periodo le Borse crollano e petrolio e gas diventano variabili in grado di mandare a gambe all’aria i mercati: se i “rivoltosi” libici prenderanno possesso dei pozzi, saranno loro a dare le carte e ci sarà ben poco da ridere. E in questo contesto globale, di cosa hanno parlato al G20 di Parigi? Di lotta alla speculazione! Come un padre di famiglia che mentre la casa brucia, si affanna nel cercare il contratto di abbonamento a Sky! E come erano tronfi, orgogliosi di aver puntato l’indice accusatorio contro gli speculatori brutti e cattivi che affamano la gente – ecco il nesso con l’incendio mediorientale – volgendo le loro attenzioni verso le commodities, alimentari e non.
Idiozie, pure e semplici. E permetterete che io vi spieghi il perché prendendo a prestito il lucido e illuminante pragmatismo di Antonio Martino, politico finissimo, economista da Nobel e per questo finito nel dimenticatoio della politica italiana. Partiamo da un dato di fatto inconfutabile: l’unico modo in cui si possa guadagnare a questo mondo consiste nel comprare a poco e vendere a molto, questo penso riesca a capirlo anche Nicolas Sarkozy. Chi acquista una determinata merce o un titolo azionario a prezzo basso e lo rivende a molto guadagna, chi effettua l’operazione opposta, comprando a molto e vendendo a poco, perde.
Ora, ci spiega Martino, «se l’insieme degli speculatori compra quando una merce è abbondante e il suo prezzo è basso, somma la propria domanda alla domanda di mercato e contribuisce a rendere meno basso il prezzo del prodotto in questione, che sarà più alto di quanto sarebbe in assenza di speculazione. D’altro canto, se gli speculatori vendono quando una merce è scarsa e il suo prezzo alto, sommano la propria offerta a quella di mercato e rendono meno scarsa la merce e più basso il suo prezzo. L’effetto netto della speculazione è quindi stabilizzante: rende meno bassi i prezzi bassi e meno alti quelli alti. Vista dal punto di vista della quantità, la speculazione rende meno abbondante una merce quando ce n’è “troppa” e meno scarsa quando ce n’è “troppo poca”».
E qui, a occhio e croce, Nicolas Sarkozy già starebbe brancolando nel buio con gli occhi rivolti al cielo. Insomma, la speculazione non solo stabilizza i prezzi che hanno fluttuazioni meno marcate di quanto avrebbero altrimenti, ma tende anche a distribuire e rendere più uniforme la disponibilità della merce nel tempo. Attacca Martino: «Se le cose stanno così, non si vede perché il fenomeno debba meritare la riprovazione generale. Ovviamente nulla garantisce a priori che gli speculatori guadagnino dalla loro attività e se, per incompetenza o carenza di informazione, effettuano scelte sbagliate, non solo ci rimettono loro, ma determinano anche conseguenze negative per la collettività. Infatti, se comprano quando c’è penuria di un certo prodotto, lo rendono ancora più scarso e determinano un ulteriore aumento del suo prezzo e, se vendono quando è abbondante, riducono ulteriormente il già basso prezzo. In questo caso, la speculazione è destabilizzante e gli speculatori nel loro insieme subiscono perdite.
Com’è ovvio, tuttavia, ciò non accade intenzionalmente – guadagnare è interesse di chi specula – ed è quindi da ritenersi eccezionale la speculazione destabilizzante. Questa lunga e spero semplice premessa serve per mostrare come sia insensata l’idea diffusa secondo cui l’alto prezzo del petrolio sia dovuto alla speculazione – “ci sono più contratti che barili” ha sentenziato con grande sicumera il nostro impareggiabile ministro dell’Economia – perché, a meno di sostenere che gli speculatori siano autolesionisti, non si vede perché dovrebbero acquistare quando il prezzo è alto (in attesa di poter vendere quando sarà più basso?)». Cosa succede allora?
Semplice. Quello che accade è che gli speculatori prevedono prezzi più alti degli attuali e quindi comprano adesso per vendere allora, così facendo consentono al prezzo di anticipare adesso una parte dell’aumento che è destinato ad avere in futuro. «Questo – conclude Martino ospitato dall’Istituto Bruno Leoni – incentiva un uso meno esteso del petrolio, l’adozione di tecniche volte a risparmiarlo e la ricerca di nuovi approvvigionamenti, tutte attività che lo renderanno meno scarso e meno caro in futuro. Ancora una volta siamo in presenza di un’attività socialmente benefica: gli speculatori, arricchendosi, fanno anche il nostro interesse».
Chiaro, adesso? Quindi, le baggianate che sentirete a iosa in questi giorni di greggio ai massimi da due anni e mezzo, argento sugli scudi (cartina di tornasole dell’inflazione reale negli Usa), rame ormai ambito come il platino, vanno trattate come tali. Non sanno cosa dire e allora si affidano al populismo da keynesiani di ritorno: leggessero Von Hayek o Von Mises, forse, eviterebbero queste patetiche crociate salvamondo degne di Beppe Grillo.
Chissà come mai, poi, questi Robin Hood omettono di dire al mondo – e, quindi, di comportarsi di conseguenza attraverso atti concreti – che le maggiori posizioni futures sulle commodities sono detenute da banche, le stesse inondate di soldi statali per essere salvate a spese dei contribuenti (come dico da mesi, l’Ue non sta salvando Grecia e Irlanda, ma le banche tedesche, inglesi e francesi esposte in quei paesi) oppure da paesi come la Cina, vero e proprio motore dell’aumento record del rame visto l’incetta fatta sul mercato (insieme a JP Morgan Chase). Pensiamo al nickel, poi, controllato sia a livello di futures che di riserve fisiche da quattro player al mondo: dove sarebbero questi speculatori assetati di sangue e commodities, questi famigerati hedge funds che macinano denaro alla faccia dei bambini africani con il pancione e gli occhi tristi? Solo nel populismo da quattro soldi del G20, simposio di politici intenti a tutelare gli interessi di banche istituzionali che operano sul mercato come merchant bank. Il quale, però, si è ben guardato dall’affrontare un problema non da poco come l’inflazione montante, ad esempio.
Certo, discutere di speculazione garantisce i titoli sui giornali, parlare di deflazione suscita sbadigli e al massimo un boxino di venti righe. In compenso, lo scorso weekend ci ha regalato una notizia davvero interessante. Negli ultimi due giorni della scorsa settimana, infatti, abbiamo assistito a un massiccio utilizzo del Prestito Marginale presso la Bce (Marginal Lending Facility), ovvero il salvagente di ultima istanza per il sistema bancario europeo. Una linea di credito overnight (della durata di un giorno) illimitata, ma costosa: la Bce si fa pagare un tasso annuale dell’1,75% a fronte di tassi Eonia (tassi overnight interbancari) intorno allo 0,6-0,7%.
Cosa significa tutto questo? Gli analisti si sono subito divisi in due vulgate: per qualcuno, si sarebbe trattato di un’enorme speculazione finanziaria a brevissimo termine da parte delle banche europee contro il dollaro, in attesa di un innalzamento a breve dei tassi ufficiali di interesse in Eurolandia, ipotesi resa credibile dai 100mila contratti futures eurodollaro marzo 90 venduti nella sola mattinata di venerdì, un livello quasi record. Insomma, le banche europee stavano investendo quanta più liquidità possibile in euro (anche chiedendo riserve straordinarie alla Bce) pur di indebitarsi in dollari, dato che avrebbe spinto al rialzo sia Wall Street che il tasso interbancario EONIA. La seconda vulgata, invece, legava quel picco a un eventuale collasso bancario il cui rischio era tale da costringere alcune banche a finanziarsi con la costosa Bce.
Insomma, un bel giallo risolto però sabato pomeriggio dal solito Financial Times: le due banche colpevoli di quell’innalzamento hanno un nome, Anglo Irish Bank e Irish Nationwide Building Society, due istituti irlandesi falliti e nazionalizzati. E perché? Le due banche si sarebbero rivolte alla costosa linea di credito della Bce per avere la flessibilità di vendere in fretta gli assets che hanno messo in garanzia per ottenere il prestito, cioè si sarebbe trattato di una specie di prestito ponte a fronte di un forte azione di ristrutturazione delle due banche. Credibile?
L’ho chiesto a un banchiere popolare di mia totale fiducia e questa è il testo originale della sua risposta: «Caro Bottarelli, nessuno sa niente. Non si è trattato di un errore di tesoreria di un giorno. È possibile solo fare ipotesi. Certo è che per accedere all’MLF occorre avere asset stanziabili e quindi l’ipotesi di prestito ponte è attendibile. Vedremo…».
Già, vedremo. E ci vorrà poco, visto che venerdì in Irlanda si terranno elezioni anticipate e il leader del Fine Gael, nazionalisti di centrosinistra ritenuti i possibili vincitori, ha già reso nota l’intenzione di rinegoziare i termini del prestito di Ue e Fmi (l’Irlanda paga il 5,8% di interessi sul prestito contro il 5% della Grecia) e dar vita a pesanti tagli dei rendimenti per i detentori di debito senior delle banche.
Insomma, gli irlandesi hanno intenzione di far pagare a tutti il prezzo del salvataggio delle banche estere esposte: vogliamo dargli torto? In compenso, al G20 si parla di speculazione… Poveri noi.