Gli orrori che ogni giorno ci arrivano dalla Libia rendono pressoché impossibile soffocare il sentimento e raffreddare la ragione. Eppure, quanto più la crisi è grave, tanto più serve esaminarla con lucidità; quanto più è allarmante, tanto meno abbiamo bisogno di allarmismo.

Il primo problema è umanitario. Cifre incerte, sparate senza possibilità di conferma. Trecentomila profughi attraverso il mare? O forse un milione? Non ci sono navi sufficienti in giro per il Mediterraneo. Certo la fuga dalla Libia c’è, ed è massiccia, lo si vede in Tunisia e in Egitto, ma solo la soluzione della crisi ci potrà dire se si tratta di un “esodo biblico”.



Occorre preparasi all’accoglienza, ma forse prepararsi a prevenirla, come dice Karim Mezran, direttore del Centro studi americano di Roma, libico di origine. Cioè, bisogna essere pronti a intervenire per salvare i nostri connazionali e, insieme agli altri paesi europei, alla Lega araba e sotto l’egida dell’Onu, impedire una catastrofe. La Libia non può trasformarsi in una Somalia. O in un Kosovo.



Il secondo problema riguarda la prospettiva politica. Il dopo Gheddafi è cominciato, anche se la sua sanguinaria repressione potrà prolungare la vita al suo regime. La Libia è meno compatta e solida dell’Iraq, lo Stato meno forte, la società civile meno articolata dell’Egitto, quindi la disgregazione può diventare più rapida, e il Paese finire in mano alle tribù come l’Afghanistan. Dunque, dobbiamo, noi italiani per primi, preparare uno scenario credibile per il regime change.

Un passaggio fondamentale, ha spiegato Paul Wolfowitz al The Wall Street Journal, è sostenere le forze ribelli, riaprire con la forza (tecnologica) le comunicazioni (internet, telefoni, ecc.), ma anche prepararsi a iniziative che isolino e indeboliscano il dittatore e i suoi sostenitori (ad esempio, congelare i suoi beni all’estero), offrire rifugio per i militari che disertano, imporre una no fly zone che impedisca di usare la forza aerea contro i ribelli.



Il terzo problema (e non a caso lo metto per ultimo) è quello economico. La situazione energetica è seria, ma nient’affatto disperata. Abbiamo gas per mesi, ce n’è persino troppo sul mercato, non è stato utilizzato tutto quello russo e siamo in difetto con gli impegni contrattuali, spiega Davide Tabarelli direttore di Nomisma energia. Colpa della crisi che ha creato un eccesso di offerta e di un inverno con temperature medie.

 

Adesso arriva la primavera. Dunque, dovremmo essere in sicurezza. Così non sarà nel medio periodo se l’intera Libia collassa. Se, invece, avviene un cambio di regime sul modello tunisino o egiziano, allora, al contrario, l’accesso alle fonti energetiche potrebbe diventare più sicuro di quando erano nelle mani di Gheddafi. A patto che l’Italia non venga identificata troppo a lungo con il vecchio regime.

 

Più seria la situazione per le partecipazioni finanziarie. Unicredit (dove i libici hanno il 7%) è in ambasce perché non si trova più un referente. Ma la sorte peggiore riguarda quel 2% in Finmeccanica. Consentirne l’acquisizione è stato un errore, segno di scarsa visione strategica. Finmeccanica è un’azienda pubblica. Per l’industria militare e le alte tecnologie deve valere la linea di condotta americana: non ci deve ficcare il naso nessuno che non sia un alleato affidabile. E certo Gheddafi non lo è. Quanto al suo successore, chi sa.

 

Ricorrere alle risorse dei fondi sovrani o riciclare i petrodollari è importante e utile. Ma pecunia olet. E il suo odore si sente lontano mille miglia, attraversa gli oceani a cominciare dall’Atlantico, al quale dobbiamo restare indissolubilmente legati. Gli interessi nazionali vanno difesi, però nessuno che abbia sale in zucca può dire che possiamo perseguirli fuori dal contesto europeo e dell’alleanza americana.

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