Giustizia è fatta? Dopo 363 giorni di libertà negata, Silvio Scaglia è tornato, finalmente, libero. Ma i problemi sollevati dalla sua lunga, per certi versi inspiegabile, detenzione preventiva restano sul tappeto.

Per carità. Fa senz’altro piacere prender atto che, d’ora in poi, il processo sulla frode Carosello basata sull’evasione dell’Iva ordita da un’organizzazione criminale, potrà fare il suo corso “normale”, tra perizie, testimonianze e ricostruzioni tecniche di una materia complessa. E, in questa cornice, si cercherà di capire fino a quale livello siano esistite complicità tra i colletti bianchi di Fastweb e Telecom Italia Sparkle e un’organizzazione a delinquere con radici nell’estrema destra romana.



Ci sarà tempo e modo, insomma, per valutare la solidità delle accuse nei confronti di Scaglia e di altri imputati meno celebri. Nell’attesa, però, si può stendere un primo bilancio, tutt’altro che allegro, di una vicenda che ha visto finire in galera l’unico vero innovatore dell’industria italiana con un’esperienza e una caratura internazionale, oggi pronto a riprendere la sua attività – lontano dal Belpaese, probabilmente.



1) Il primo aspetto critico riguarda l’abnorme durata della custodia cautelare dell’imprenditore. La legge italiana prevede, per giustificare la libertà negata prima del giudizio definitivo, l’esistenza di tre condizioni: il pericolo di fuga; il rischio di reiterazione del reato e il rischio di inquinamento delle prove. Nel caso di Scaglia non esiste nulla del genere. L’imprenditore è rientrato prontamente dall’estero, una volta avuta notizia dell’inchiesta Non ha più avuto rapporti con Fastweb dal 16 marzo del 2010, cosa che rende difficile sia l’inquinamento delle prove (tra l’altro, ormai raccolte da anni) che la reiterazione del reato. Ma questo non ha impedito che, complice il ricorso al rito immediato (concesso dal gip nonostante non esistesse il presupposto delle “prove evidenti”), Scaglia fosse condannato a dodici mesi di libertà negata preventiva.



In questo lasso di tempo, si può obiettare, gli inquirenti hanno potuto lavorare nelle condizioni più opportune per arrivare a stabilire la verità. Forse. Ma, al momento della presentazione del materiale probatorio nello scorso gennaio da parte della Procura, l’ingegner Scaglia ha dovuto prender atto che gli elementi a suo carico risalivano al più al 2007/08, ovvero si trattava delle stesse prove già in mano del gip che nel 2009 l’aveva prosciolto da ogni contestazione. Intanto, nel corso dell’ultimo anno, Scaglia è stato sentito dagli inquirenti una sola volta, il 12 aprile scorso, su sua richiesta. Davvero era necessario tenerlo in cattività per tutto questo tempo? O non si è trattato di una grossa prova di inefficienza e di impotenza nel condurre indagini efficaci?

2) Il confronto sulla carcerazione preventiva rischia di far passare in secondo piano uno dei temi più delicati sollevati dal processo: la principale accusa nei confronti di Scaglia si riassume nel concetto che lui, amministratore di una media azienda (3mila dipendenti) “non poteva non sapere” della truffa che è stata ordita ai danni dello Stato dall’organizzazione criminale. Certo, è quasi scontato che la truffa abbia richiesto dei contatti interni all’azienda. Ma a che livello? In realtà, Scaglia ha cercato di dimostrare che Fastweb ha effettuato tutti i controlli previsti dalla normativa della governance interna, più rigorosa, per verificare la legittimità dell’operazione. Può darsi che abbia ragione, oppure no. Ma, in assenza di contestazioni di fatto (nessun imputato del’organizzazione Mokbel ha una conoscenza, anche indiretta, con Scaglia, né c’è traccia di vantaggio economico in seguito alla truffa), l’imputato si ritrova a dover combattere contro “gravi indizi”.

 

3) Ma non dimentichiamo che, visto dal versante della governance societaria, la vicenda Fastweb ha messo a nudo l’estrema vulnerabilità del sistema di fronte alla legge 231 che, in caso di gravi violazioni, prevede il commissariamento dell’azienda incriminata. Normativa sacrosanta, salvo che, al momento attuale, l’onere della prova tocca alla società, in un clima di incertezza. La stessa Fastweb, allora quotata in Borsa, ha rischiato il commissariamento, scongiurato con la sospensione degli amministratori. È una spada di Damocle che di sicuro non avvicina il mondo del business internazionale all’investimento in Italia. Non è una bella pubblicità spiegare a un Ceo che, in caso di inadempienze fiscali di un sottoposto, può rischiare un anno di custodia cautelare.

 

È pronto un progetto di riforma che, in estrema sintesi, prevede che le società si diano regole precise, sulla base di indicazioni di legge. Toccherà al pm, a differenza di quanto avviene oggi, dimostrare la violazione di queste norme. Il testo ha sollevato aspre critiche da parte delle Procure, quasi che la riforma potesse rendere impossibili indagini in materia di reati finanziari.

4) Dal punto di vista mediatico, la vicenda ha seguito il solito copione: un avvio clamoroso, a suon di titoloni e di condanne preventive, condite da ritratti di colore sui protagonisti, la condanna della stagione della “new economy” e il sospetto nei confronti dell’imprenditore, diventato troppo ricco per essere innocente. Poi, a mano a mano che il caso giudiziario ha perso i connotati più sexy, è subentrato un certo disagio, a partire dall’imbarazzo dei giustizialisti, convinti per una sorta di malinteso dogma che nell’attuale situazione i pm debbano avere sempre e comunque ragione. Per questo su Scaglia molti, fino a ieri, hanno preferito tacere.

 

Ma stavolta il silenzio non è d’oro: il costo, in termini di credibilità, di un’indagine infinita, che coinvolge l’economia è molto elevato, quasi incalcolabile in campo internazionale. Intanto, in questi dodici mesi, sul fronte dell’innovazione e della banda larga si sono fatte molte chiacchiere, ma si è posata ben poca fibra.