Questa volta l’allarme è di quelli seri – ancorché non nuovo – e messo nero su bianco: per Dominque Strauss-Kahn, numero uno del Fmi, il rimbalzo economico che si sta sviluppando a livello globale «si basa su fondamenta instabili, con molte nazioni alle prese con crisi occupazionali e le potenze nascenti come Cina, India e Brasile ormai a rischio di surriscaldamento. Non è il tipo di ripresa che vogliamo, è una ripresa resa possibile dalle tensioni e dai sacrifici che potrebbe gettare i semi della prossima crisi».



E poi, riferendosi alle rivolte nordafricane in atto, «il livello di disoccupazione globale rimane a tassi record con ineguaglianze di reddito che vanno a sommarsi a tensioni sociali: calcolando che nella prossima decade 400 milioni di giovani entreranno nella categoria della forza lavoro, potremo vedere un aumento dell’instabilità sociale e politica all’interno delle nazioni. Fino ad arrivare a guerre».



Già, la parola tabù è uscita dalla bocca di Dominque Strauss-Kahn, dopo essere stata scritta nero su bianco sul report del Fmi dal titolo “Inequality, Leverage and Crisis”, secondo cui l’estremizzazione del gap tra ricchi e poveri – con echi a quanto accadde nei tardi anni Venti negli Usa – è stata una della causa reali della grande recessione del 2008-2009. Di più, per il centro studi del Fmi, «il mondo rischia disastrose conseguenze se i lavoratori non recupereranno potere d’acquisto. Occorrono a tal fine radicali riforme del sistema fiscale e del debito nei confronti dei lavoratori». E ancora, per Dominque Strauss-Kahn, Germania e Cina non sono modelli virtuosi da imitare ma bensì “arcipeccatori” del sistema, visto che il loro modello di sfruttamento sistematico dei surplus dell’export per potenziare la crescita a spese di Usa e altre nazioni in deficit, altro non è che una riedizione degli sbilanci tossici globali che hanno fatto riemergere la crisi sul finire del 2010.



Ultimo punto toccato dal numero uno del Fmi – in linea perfetta con l’ultimo report anti-emergenti di Goldman Sachs – è stato un avvertimento chiaro ad alcune nazioni asiatiche e ai loro eccessi ai “limiti di velocità” rispetto la crescita, attitudine che dovrebbe finire per dar vita a misure restrittive prima che l’inflazione vada fuori controllo: per Strauss-Kahn, «ci sono rischi di surriscaldamento e di atterraggio decisamente duro». Non un report rituale, né parole rituali da parte di un uomo istituzionalmente moderato come il capo del Fondo Monetario: una cosa è certa, il pianeta ha il febbrone e non intervenire in tempo potrebbe veder degenerare pericolosamente la malattia.

Ma se i guai sono a livello di sbilanciamenti globali ormai insostenibili, nel concreto e nell’immediato il timore reale è uno solo: che l’ondata di protesta che sta incendiando il Nord Africa, arrivi a toccare l’Arabia Saudita e il suo petrolio, un vero punto di non ritorno. Stando a un report pubblicato dall’azienda di consulenza sul rischio Exclusive Analysis, «Yemen, Sudan, Giordania e Siria già appaiono molto vulnerabili, ma il più grande rischio, sia a livello di probabilità che di severità d’impatto, è in Arabia Saudita».

 

Nonostante le tensioni egiziane, infatti, nessuno nel paese appare così pazzo da mettere a rischio il Canale di Suez, infrastruttura che garantisce al paese introiti pari a 5 miliardi di dollari l’anno. Più preoccupante, invece, è la provincia dell’Est dell’Arabia Saudita, dove hanno sede il quartier generale del gigante petrolifero saudita Aramco, oltre ai pozzi petroliferi immensi di Safaniya, Shaybah e Ghawar. La questione, laggiù, è tutta interna all’instabilità interconfessionale islamica: il 10% della popolazione saudita, infatti, è sciita e nonostante sia marginalizzata, siede sulle riserve petrolifere del regno. Per gli analisti di Exclusive Analysis «ci sono spesso e volentieri violenti scontri nelle strade tra sciiti e forze di sicurezza, ma i giornali ne parlano davvero raramente». Il pensiero, alla luce di quanto sta accadendo oggi, corre al 1979, quando gli sciiti sauditi diedero vita alla loro intifada ispirati dalla rivoluzione khomeinista in Iran e le proteste causarono 21 morti.

 

Per il report appena pubblicato, «appare difficile valutare come i militari sauditi potrebbero gestire una seria esplosione di proteste nella provincia». Non è un caso che Re Adbullah abbia diramato attraverso l’agenzia di stampa nazionale una nota nella quale dichiara che «gli agitatori si sono infiltrati in Egitto per destabilizzare la sua sicurezza e incitare la malefica sedizione». Lessico da sovrano saudita, certo ma anche una chiara sensazione di timore e una nemmeno troppo velata accusa all’Iran sciita di operare come burattinaio, dopo che Teheran ha definito «domande giuste» quelle poste dal movimento di protesta.

 

La paura più grande nelle nazioni arabe sunnite è che l’Iran abbia intenzione di dar vita a una “Shia crescent” – mezzaluna sciita – che passi attraverso l’Iraq, il Bahrein e le aree del golfo dell’Arabia Saudita per dar vita a una forza egemonica globale nell’offerta di petrolio. Per Goldman Sachs, il Medio Oriente detiene il 61% delle riserve di petrolio provate – e il 36% della fornitura attuale – e questo potrebbe garantire una sorta di scudo dal contagio politico, visto che i leader mondiali potrebbero dar vita a «sforzi concentrati per stabilizzare la regione». Il problema è che la polveriera saudita vanta un terzo dei suoi 25 milioni di residenti rappresentato da stranieri, spesso mal assimilati e una disoccupazione giovanile che vede il 42% dei ragazzi tra i 20 e i 24 anni senza lavoro.

Per Nima Khorrami Assl, esperto dell’area del Golfo al Transnational Crisis Project, «gli sciiti sono stati stigmatizzati a causa dell’eccessiva paranoia seguita alla rivoluzione islamica in Iran e ancora oggi devono affrontare sistematiche barriere al diritto all’educazione e all’occupazione. Se gli Stati del Golfo continueranno a preservare lo status quo, il malessere sociale sarà inevitabile. La situazione attuale è pericolosamente ingestibile». Un’analisi, quella di Exclusive Analysis, da prendere seriamente, visto che in Giordania il Re è già ricorso a un cambio di primo ministro in corsa per cercare di placare la piazza, mentre in Yemen si è arrivati alla richiesta di formazione di un governo di sicurezza nazionale.

 

Lo stesso Egitto, poi, ieri ci ha dimostrato come la tesi avanzata da Moustafa El-Husseini, autore di “Egypt on the brink of unknown”, riguardo il «rischio di una guerra civile a bassa intensità» sia tutt’altro che peregrina. Detto fatto, a Londra il Brent crude ha toccato i massimi da 28 mesi a questa parte a quota 102,08 dollari al barile, mentre il greggio trattato a New York staziona ormai fisso a quota 90-91 dollari al barile, consentendo alla speculazione buoni margini di guadagno attraverso gli irrituali spreads tra i due prezzi. Normalmente, infatti, questo differenziale è inverso: il Wti viene scambiato a un prezzo superiore in ragione della maggiore leggerezza, del basso contenuto di zolfo nella sua composizione (indice di migliore qualità) e del costo di trasporto, più alto negli Stati Uniti.

 

Questo insolito movimento sul differenziale è iniziato nei primi di dicembre e ha toccato il massimo storico (12 dollari) lo scorso 27 gennaio, a causa sia dell’aumento delle scorte cushing negli Usa, sia della riduzione del flusso dalle piattaforme del Mare del Nord. Il problema, però, è che questa impennata dello spread è sideralmente distante dai fondamentali della domanda e dell’offerta. Che accade, allora? Con il costo del denaro a zero, gli investitori istituzionali hanno un’enormità di denaro a disposizione, liquidità che evidentemente è finita soprattutto nei prodotti legati all’andamento delle materie prime come il petrolio (attraverso i fondi etf, ad esempio) che si rivelano molto redditizi.

 

Unite a questo contesto di squilibrio, il rischio di una escalation dell’instabilità nel Nord Africa, magari capace di contagiare gli Stati del Golfo e ben potete capire come le parole allarmate di Dominque Strauss-Kahn, per una volta, siano davvero da prendere sul serio.