Benedetta sia la crisi, scrive Martin Wolf, chief economist del Financial Times, brandendo da buon intellettuale l’arma del paradosso. E benedetta sia, potremmo aggiungere noi italiani, afflitti dalla sindrome del declino, che ormai morde il tenore di vita delle famiglie, nonostante il cuscinetto dei risparmi accumulati dalle generazioni passate.



Grazie alla crisi, infatti, finalmente emergono elementi di discontinuità nella tela del ragno che avviluppa il sistema Italia. Il primo, e più clamoroso, l’ha introdotto, per ragioni ben note, la vertenza di Mirafiori che ha riportato in primo piano il tema della produttività del sistema delle grandi imprese.

Il secondo, in forma assai meno esplicita, è stato sollevato da Diego Della Valle, scoppiettante esponente del made in Italy che rivendica, sul terreno politico e sociale, di poter incassare il dividendo dello sviluppo, merce rara in un Paese per molti versi congelato. Certo, le sue sortite contro i “vecchi signori” che senza investire quattrini propri condizionano le scelte di aziende chiave, come il Corsera, possono essere interpretate in mille modi, più o meno vicini alle partite del potere quotidiano. Ma la questione di Rcs è comunque la punta dell’iceberg di equilibri del sistema reale rilevanti.



Dietro l’offensiva dello “scarparo” marchigiano (ormai il nom de plume dell’industriale) emerge un tema più generale: il capitalismo italiano, ormai da tempo, privilegia l’obiettivo della stabilità a quello dell’efficiente allocazione delle risorse. Una scelta difensiva, che aveva senso quando si trattava di tenere il sistema Italia al riparo da corsari, raider o gruppi economici interessati a sfruttare un mercato importante. Assai meno, quando si tratta di attrezzare la navicella per partecipare a una sfida internazionale che non ammette dispersione di energie: un conto è primeggiare nel campionato della Penisola, altro è competere su mercati dove non conta avere un buon rapporto con gli arbitri.



Per queste ragioni, le Generali, cassaforte di partecipazioni strategiche sul piano del controllo, ma non della redditività, deve cambiare missione. Basta, dunque, con la “logica del due per cento”, imposta per tanti anni da Mediobanca al Leone di Trieste per gestire, con alterni successi, le vicende della chimica, dell’auto, delle assicurazioni, dell’energia, delle telecomunicazioni e così via fino all’editoria.

Ora, con un congruo e colpevole ritardo, anche la politica sembra essersi resa conto che è necessario cambiar registro, se si vuol evitare un declino inarrestabile, paragonabile a quello che all’inizio del Seicento vide il reddito della Penisola precipitare dai primi agli ultimi posti del Vecchio Mondo, nonostante, allora come ora, non mancassero eccellenze economiche, finanziarie o culturali. Anche se l’agenda del cambiamento, al solito, viene dettata dal di fuori: il 24 marzo, come ha ricordato sulle colonne del Corriere Francesco Giavazzi, il Consiglio europeo dovrà, in sostanza, dettare le condizioni che la Germania chiede per salvare l’Unione Monetaria. O meglio, “le condizioni che la signora Merkel ritiene necessarie per convincere i sui concittadini a farlo”.

 

In gioco, per rifarci a Martin Wolf, ci sono i nuovi equilibri e le nuove emergenze evocate dalla crisi. I bilanci dell’Occidente escono dal collasso del 2007/10 esausti, in condizioni così critiche che nessuno può far sconti a chicchessia. Non solo. Dal cilindro della storia è emersa una realtà tecnologica che ha in pratica azzerato i vincoli dello spazio, allargando l’offerta finanziaria a Paesi che offrono, a partire dai Bric che viaggiano a tassi di crescita sei-otto volte superiori al Bel Paese, condizioni ben più allettanti per i possibili creditori, Germania in testa.

 

In sostanza, per investire nel futuro dell’Unione Europea, importante ma non così vitale per il suo sviluppo come fino a pochi anni fa, Berlino ci chiederà di introdurre la regola del pareggio di bilancio nella Costituzione o garanzie equivalenti a testimonianza della volontà dell’area debole di Eurolandia di non pesare sull’andamento della moneta unica. Quali garanzie? Maggiori tasse e/o tagli alle spese, nel breve termine. Interventi chirurgici, insomma, assieme ad abbondante uso e abuso di anestetici. Ma cosa scegliere? Il grande dilemma sta tutto qui: la scelta della patrimoniale porta con sé i rischi di una vera e propria chemioterapia. La vendita dell’“argenteria di famiglia”, vedi le privatizzazioni, non dà alcuna garanzia, se si limiterà a essere, come è successo in passato, un’operazione finanziaria che non sposta i veri equilibri di governance del capitalismo nostrano.

Per queste ragioni,c’è da diffidare del facile entusiasmo con cui si dà per scontato di poter invertire, con un colpo di bacchetta magica il trend dominante, liberando con riforme costituzionali l’Italia da lacci e lacciuoli scatenando chissà quali energie imprenditoriali sommerse. Per carità, di riforme da fare ce ne sono tante. Anche di pronto intervento: una terapia shock per detassare il lavoro femminile, contribuendo a eliminare un dei gap che separano l’Italia dalle altre economie dell’area Ocse. Certo, mancano gli asili, le scuole e le infrastrutture più necessarie. Ma non può essere una scusa per non eliminare un dei gap che frenano lo sviluppo, a danno delle famiglie.

 

Altra riforma possibile: il parziale disimpegno degli “over 50” a vantaggio dei giovani. In molti Paesi si consente ai più anziani di uscire dal ciclo di produzione per sostituirlo con un ruolo, essenziale, di formazione dei più giovani. Cala l’impegno, cala lo stipendio in attesa della pensione. Ma si apre spazio ai figli, favorendo il loro impiego più efficace in azienda. Fermiamoci qui: i giornali di questi giorni sono zeppi di consigli, spesso buoni, per rilanciare la crescita. Del resto, le formule e le terapie sono ben note. Forse troppo. Quel che manca è la capacità di esegure correttamente i compiti.

 

Insomma, meglio una manciata di vendite effettive di utilities, cacciando i consiglieri di nomina pubblica, piuttosto che riforme scritte sulla carta (o sulla sabbia?). Meglio sapere che ai vertici di Edison, tra un paio di mesi, non ci andrà un signore, pur degno, designato dalla Lega Nord o un ex sindaco di Milano, da premiare per la sua mancata candidatura a palazzo Marino: cambiamo i criteri di scelta, e saremo più credibili che a riscrivere l’articolo 41 della Costituzione.