Secondo il calendario cinese, il 2011 sarà l’anno del coniglio. Secondo il calendario delle emissioni obbligazionarie – meno comprensibile di un almanacco cantonese -, il 2011 sarà l’anno dei rifinanziamenti. Bilanci alla mano, si può azzardare un oroscopo: sarà l’anno di lepri, conigli e tartarughe. Ovvero banche, industrie e Stati (un tempo) sovrani.



Le banche sono state le più svelte: dall’inizio dell’anno le emissioni obbligazionarie del settore finanziario sono già state 104, per un totale di 30 miliardi di euro. Non è andata così bene per le industrie: le uniche due euro-emissioni a raggiungere quota un miliardo riguardano i beni di consumo ciclici (BMW Finance) e non-ciclici (società autostrade Parigi-Rhin-Rhone).



C’è da scommettere che le grandi emissioni corporate non tarderanno ad arrivare, anche se l’impressione è la stessa da ormai tre anni: in un momento in cui tassi euribor e spread corporate sono favorevoli alla raccolta, le grandi emissioni industriali si limitano ad accumulare risorse per le due emergenze di breve termine: fronteggiare i grandi stock di debito e assicurarsi la liquidità necessaria per navigare a vista. Salvo rare eccezioni (si parla di un’emissione in cantiere per lo spin-off Fiat Industrial dato sui 2 miliardi di euro), gli investimenti strategici latitano.

E a proposito di coraggio, le emissioni governative riserbano una sorpresa. In data 26 gennaio, il veicolo europeo per la stabilità finanziaria (European Financial Stability Facility, EFSF) ha collocato una prima forma di euro-bond, cioè un titolo di debito europeo garantito dai membri dell’eurozona. Il valore nominale è pari a cinque miliardi di euro, per un rendimento lordo del 2,89% a scadenza 2016. In parole povere, l’Ue si è finanziata con un’operazione a cinque anni che paga il tasso euro di riferimento più uno spread dello 0,56%. Ovvero, per dirla in termini tecnici, 56 punti base.



L’emissione andrà a coprire il fabbisogno finanziario dell’Irlanda, i cui titoli di stato al momento pagano per una maturità simile uno spread sui 560 punti base, cioè dieci volte superiore. Tuttavia, per i banchieri centrali non è ancora arrivato il momento di tirare lo champagne fuori dal frigo. Anzi, di primo acchito suggerirei piuttosto di tenere l’elmetto a portata di mano.

 

A giudicare dai cds della zona euro, lo spettro della speculazione sembra essere passato oltre senza troppi danni. Lo spread dell’Italia, ad esempio, è tornato sotto quota 200 punti base, dopo il picco raggiunto a fine novembre. A coronare il successo, l’esito positivo dell’eurobond: le richieste sono state di otto volte superiori all’offerta.

 

Perché, quindi, non è ancora il momento di festeggiare? Il prototipo di e-bond del 26 gennaio era un titolo AAA, blindato e garantito dall’eurozona, che tuttavia rendeva più di un’obbligazione tedesca. Un’occasione talmente ghiotta da attirare anche gli investitori meno coraggiosi. Per vincere le prossime sfide (ne vedo due all’orizzonte), l’euro dovrà condurre gli investitori attraverso rischi più impegnativi.

 

La prima sfida sarà evitare una balcanizzazione dei titoli di stato. Ovvero, evitare che titoli AAA dedicati a paesi in panne finiscano col prosciugare i capitali disponibili per i paesi a metà classifica. Tra i paesi virtuosi (Germania, Finlandia e, poco dietro, Francia) e i paesi finiti in testacoda (Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna), esiste una fascia di spread cds che oscilla tra i 100 e 200 punti base. Fanno parte di questo gruppo, per ragioni socio-economiche diverse, Italia, Belgio, Estonia e altri paesi cosiddetti “periferici”. Per questi Stati, il prototipo di e-bond è una lama a doppio taglio. Da una parte, il panico sui mercati si arresta, dall’altra lo spread con il Bund, per la concorrenza del nuovo titolo, rischia di allargarsi, andando a penalizzare chi dalla crisi sta uscendo sulle proprie gambe.

L’Ue ha lanciato un messaggio chiaro ai mercati: un paese intossicato dal debito anni ’90, l’Irlanda, può contare su titoli AAA, cioè su un supporto degli altri membri dell’Unione. Ma i capitali a vocazione obbligazionaria non si moltiplicano dalla sera alla mattina. E, come detto all’inizio, le istituzioni finanziarie si sono già servite al banchetto delle emissioni di inizio anno.

 

Anche ipotizzando una corsa tra industrie e governi, il coniglio corporate arriverebbe alle fette di mercato rimaste più velocemente della tartaruga stato. E in ogni caso, una corsa del genere non vedrebbe alcun vincitore: sui mercati globali l’euro ha bisogno dell’industria almeno quanto le industrie abbiano bisogno della moneta unica. Non resta che osare la soluzione di lungo periodo: trasformare l’euro da moneta di debito corrente a valuta di investimenti.

 

E qui arriva la seconda sfida. Il veicolo europeo per la stabilità finanziaria ha le carte in regola per arrivare all’emissione di un vero e proprio eurobond. A quel punto i paesi dell’Unione dovranno lanciare un messaggio ai mercati, e lanciarlo forte e chiaro: l’eurobond finanzia il futuro dell’Ue, non il presente, tanto meno il passato. Come farlo è materia in discussione tra gli esperti: c’è chi parla di finanziare infrastrutture, chi discute la possibilità di destinare la raccolta in cambio di tasse nazionali a garanzia (il cosiddetto collaterale fiscale). Senza dubbio il modello europeo, per non disgregarsi, dovrà spezzare la correlazione debito-spesa e trovare investitori sovrani disponibili all’impresa.

 

Se l’assuefazione da debito non passerà, sui mercati dell’euro si scatenerà una guerra dell’oppio finanziario. E questa volta un pezzo di Europa diventerà protettorato cinese.