Una Fiat americana o una Chrysler italiana? Sergio Marchionne, amministratore delegato delle due case automobilistiche ha dato una risposta che ha suscitato molte polemiche. Fiat potrebbe spostare in futuro la propria “testa” negli Stati Uniti (o avere quattro centri direzionali nel mondo), nel momento in cui Chrysler rimborserà i crediti che deve allo Stato Americano.



Una Fiat che ha annunciato un utile di 600 milioni di euro in netto miglioramento rispetto alla perdita di oltre 800 milioni di euro del 2009. Il 2010 è stato l’anno dell’ultimo bilancio consolidato di Fiat Auto e Fiat Industrial; la prima è diventata la parte specializzata nel settore auto, mentre la seconda società ha il suo centro d’affari nella parte dei veicoli industriali.



Lo spin off, pensato e approvato tra aprile e maggio dello scorso anno dal management e dagli azionisti, ha avuto l’obiettivo di rendere evidente il valore delle due società. In questo modo Fiat potrebbe trovare le risorse necessarie per continuare a crescere in Chrysler. Già a inizio gennaio Fiat ha acquisito un ulteriore 5% (gratuitamente secondo gli accordi con il Governo americano) della quota azionaria della casa di Detroit, arrivando al 25%. Marchionne ha l’obiettivo di arrivare al 35% entro la fine dell’anno e di crescere fino alla maggioranza delle azioni entro i prossimi due anni.



Fiat sta acquistando quote di Chrysler e dunque la società americana si “italianizzando” con l’entrata di Fiat. Lo stesso Marchionne è diventato amministratore delegato di Chrysler, con piena soddisfazione dei sindacati e dei politici americani.

La casa torinese ha inoltre presentato il piano “Fabbrica Italia”, nel quale, dopo 20 miliardi di investimenti nel nostro Paese, la società dovrebbe aumentare la propria produzione di oltre il 50% per arrivare a circa 1 milione di autoveicoli all’anno. La produzione italiana è caduta nell’ultimo decennio, passando da oltre 1,3 milioni di veicoli all’anno a poco più di 600 mila veicoli. Un dimezzamento nonostante i continui sussidi al settore.

Il modello italiano di produzione era basato sullo scambio tra politica e Fiat, nel quale l’azienda garantiva una certa produzione in Italia (comunque calante) e i diversi Governi incentivavano l’acquisto di automobili. Il risultato di questo scambio inutile aveva portato l’Italia a produrre meno auto rispetto alla Repubblica Ceca. Un bel risultato indubbiamente! Marchionne, con il modello Pomigliano, successivamente esteso a Mirafiori, chiede ai lavoratori italiani una maggiore flessibilità e produttività in cambio di uno stipendio più elevato e di investimenti certi nel Paese. Solo una parte del sindacato è andato contro questo accordo e molto probabilmente il “contratto Pomigliano” verrà esteso a tutti gli stabilimenti italiani del gruppo.

 

La produzione italiana, pari a un milione di autoveicoli, sarà tuttavia solo un quinto di quella totale di Fiat. Attualmente Fiat e Chrysler vendono invece meno di 4 milioni di veicoli, suddivisi quasi equamente tra le due case automobilistiche; in realtà nel 2010, il produttore americano ha consegnato poco più di 1,6 milioni di veicoli, ma nel 2011 il numero di veicoli prodotti dovrebbe salire a 2 milioni. Un incremento del 25%, principalmente in un mercato, quello statunitense, che dovrebbe crescere a sua volta del 10% fino a 12,7 milioni di veicoli.

 

La quota di mercato di Chrysler, per raggiungere tale obiettivo, dovrebbe arrivare quasi all’11%, 1,5 punti percentuali in più rispetto all’anno scorso. Un obiettivo difficile da raggiungere, ma non impossibile; un dato che, in termini di auto vendute, spinge Chrysler alla parità con Fiat.

 

Tuttavia, se si guardano i dati dei ricavi, la casa americana, già nel 2011, dovrebbe avere più importanza di Fiat Auto. Il produttore di Detroit dovrebbe vedere il proprio fatturato crescere di quasi il 25% fino a superare i 55 miliardi di dollari. Una Chrysler sempre più importante.

 

La testa della Fiat andrà dunque in America? In realtà la questione è poco importante, perché è molto più importante sapere se l’Italia continuerà a vedere crescere la produzione sul proprio territorio. Nascondersi dietro al nazionalismo di un’azienda è il solito errore che si può compiere. Non era meglio vedere i francesi controllare Alitalia con 6 miliardi di investimenti piuttosto che una cordata italiana, con tre miliardi di perdite accollate ai contribuenti italiani?