«È giunto il momento di decretare la fine della tolleranza passiva verso il concetto stesso di comunità divise e affermare la necessità che i membri di tutte le fedi si integrino in una società più ampia e inclusiva, oltre che di accettare i valori chiave della società britannica. La quale crede nella libertà di parola e di religione, nella democrazia e nell’uguaglianza dei diritti a prescindere da razza, sesso o orientamento sessuale.



È tempo di un “liberalismo muscolare” attraverso il quale chiunque, dai ministri ai semplici cittadini, dovranno confrontarsi con chi ha visioni estremiste. Sotto la dottrina del multiculturalismo di Stato, abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite separate dagli altri. Abbiamo fallito nell’offrire una visione di società alla quale questa gente sentisse di voler far parte. Insomma, non basta più vivere in comunità separate, secondo valori differenti purché nel rispetto della legge: la società è una, i valori quelli britannici. Razzismo e intolleranza sono giustamente condannati, ma quando visioni della società o pratiche inaccettabili sono arrivate da qualcuno che non era bianco, siamo stati troppo cauti, anzi troppo paurosi, nel prendere posizione contro di esse».



Chi si è permesso di dire cose simili? Un pericoloso estremista di destra inglese? Un nipotino di Enoch Powell e della sua profezia di “fiumi di sangue” causati dall’immigrazione selvaggia? Il leader del British National Party? No, David Cameron, primo ministro britannico e paladino di concetti come la “big society” e il conservatorismo compassionevole. Parlando a un convegno sulla sicurezza globale a Monaco di Baviera, il leader conservatore ha spiazzato tutti e lanciato un chiaro segnale al suo paese: stando a un report dei servizi segreti rilanciato in esclusiva dal Daily Telegraph, l’unica vera minaccia per il Regno Unito viene dai britannici islamici radicalizzati. Quindi, il tempo dell’attesa e della pazienza è finito.



Ovviamente, la concomitanza di questa dichiarazione con la marcia, a Luton, di migliaia di aderenti alla formazione ultranazionalista e anti-islamica English Defence League ha scatenato un vespaio di pelose polemiche politiche, ma la realtà è un’altra: mai come oggi, la Gran Bretagna siede su una bomba a orologeria sociale. È l’economia ad aver dato la sveglia a David Cameron, non qualche lettura poco politically correct o la voglia di offrire un’opzione più establishment e presentabile a chi guarda con favore la rabbia xenofoba dell’English Defence League, soprattutto proletariato bianco britannico ma sempre più anche middle-class.

Nel giorno in cui il Fmi metteva in guardia i governi dal combinato di crisi del credito sovrano e di quello bancario, da Londra arrivava infatti una doccia fredda per le già timide speranze di ripresa economica. Stando ai dati diffusi dall’Office of National Statistics (Ons), nel quarto trimestre del 2010, infatti, il Pil britannico è sceso dello 0,5%, primo calo da un anno a questa parte a fronte invece di un aumento dello 0,7% registrato tra luglio e settembre. Un dato davvero pesante, visto che, oltre ai riflessi diretti sull’economia, pare destinato ad alimentare il dibattito politico riguardo l’eccessiva stretta fiscale decisa dal governo di coalizione e a porre sotto ulteriore pressione la Bank of England, chiamata a decidere sulla direzione che dovranno prendere i tassi d’interesse a fronte di un’inflazione in continua crescita.

 

Alzarli bloccherebbe la trappola inflattiva, ma rischierebbe di uccidere del tutto la più che fragile ripresa in atto; mantenerli a livello attuale potrebbe significare per il governo dover affrontare una “spring of discontent” a causa del prezzo in continuo aumento dei generi di prima necessità e la disoccupazione record: il combinato di rabbia sociale e xenofobia latente, capite da soli, spaventa David Cameron più dell’arrivo di un tifone in stile australiano. Essendo poi, per volontà di Tony Blair e richiesta di Gordon Brown, la Bank of England completamente indipendente dal potere politico, la prossima riunione del Monetary Committee si preannuncia bollente. «Anche accettando una frenata dell’attività economica in dicembre a causa delle severe condizioni meteorologiche, una contrazione dello 0,5%o sul trimestre è qualcosa di davvero preoccupante, direi spaventoso», ha dichiarato al Wall Street Journal Howard Archer, capo economosta alla IHS Global Insight.

 

Meno drammatica la reazione dell’Ons, secondo cui le abbondanti nevicate hanno colpito in maniera talmente dura comparti come costruzioni e servizi da giustificare il dato, confermando che in assenza del fattore meteorologico, la crescita del quarto trimestre sarebbe stata sì piatta ma non negativa. Ma i numeri, si sa, si prestano a molte interpretazioni e la politica non ha perso tempo per piegarle alle proprie convenienze di parte.

 

Durissima l’opposizione laburista, in verità spalleggiata da un sempre crescente numero di economisti, nel puntare il dito contro l’aggressiva politica di tagli alla spesa messa in atto, seppur al primo livello, dal governo, con una mannaia chiamata a decurtare qualcosa come 81 miliardi di sterline in quattro anni. «I primi segnali delle conseguenze che le decisioni del governo a guida conservatrice hanno sull’economia sono ora davanti ai nostri occhi, la realtà è che tagli troppo profondi e troppo rapidi danneggiano il sistema», ha dichiarato Ed Balls, ministro delle Finanze ombra.

 

Dal canto suo, il governo si fa forte della crisi del debito sovrano europeo, portando di fronte ai cittadini un dato frutto proprio dei tagli: la necessità di finanziamento del Regno Unito lo scorso dicembre era scesa a 16,8 miliardi di sterline dai 21 di un anno prima: «I mercati hanno punito e puniscono i paesi con finanze pubbliche deboli», ripetono a Whitehall giustificando con la necessità di stabilità le misure draconiane intraprese.

Da qualsiasi parte si voglia vedere la questione, però, restano le cifre: le previsioni degli economisti per il quarto trimestre erano, infatti, per una crescita dello 0,4% rispetto ai tre mesi precedenti e del 2,6% rispetto a un anno prima. Come anticipavamo, ora toccherà alla Bank of England prendere una decisione chiara rispetto alla politica dei tassi: l’orientamento del Comitato monetario è quello di mantenerli stabili, nonostante l’inflazione sia ormai al 3,7% contro il livello obiettivo della BoE del 2%. Un dato che, unito all’alto tasso di disoccupazione, alla bassa crescita salariale e all’incertezza economica, limiterà non poco la capacità di spesa dei cittadini britannici, vera dinamo dell’economia inglese negli ultimi dieci anni insieme alla spesa pubblica, altra voce che sotto il governo giallo-blu continuerà a calare.

 

Per George Osborne, ministro delle Finanze, «un cambio della nostra politica economica ci ributterebbe nella crisi finanziaria. Non mutiamo atteggiamento in base al tempo». Non la pensa così Hetal Mehta, economista per il Regno Unito alla Daiwa Capital Market Europe, che al Wall Street Journal ha così commentato i dati: «Sono orrendi, un assoluto disastro per l’economia». Il fantasma della “double-dip recession” si è materializzato nel Regno Unito e ora governo e Bank of England saranno chiamati a fare qualcosa in fretta, prima che il settore dei servizi distrugga quanto recuperato nel 2010 e spiani la strada alla stagflazione, terrificante combinato di crescita ferma e alta inflazione già vissuto nei primi anni Novanta.

 

I segnali di una crisi sociale, poi, ci sono già tutti: da quando il rame, grazie alla razzia cinese sui mercati, è salito oltre i 10 mila dollari la tonnellata, i furti di questo materiale ferroso sono cresciuti a dismisura. La scorsa settimana le ferrovie hanno conosciuto ritardi e disguidi a causa della necessità di rimettere a nuovo le rotaie dopo i numerosi furti occorsi durante la notte, la stessa Chiesa d’Inghilterra si è dotata di guardie private così come molte aziende, alcune delle quali hanno assunto ex gurkha nepalesi per evitare di veder razziato il loro rame. Siamo in Gran Bretagna nel 2011, non nella Londra fumosa e pulciosa di Charles Dickens. In compenso, il Financial Times ci rendeva noto che i bonus bancari non solo sono tornati dopo un annetto di pausa forzata, ma sono anche ai record di sempre: andate voi a spiegare questo rovescio della stessa medaglia a chi deve fare i conti con il prezzo di pane e latte sempre in aumento? Pensate che faccia più presa il concetto di “Big society” o quello di istituzionalizzazione politica della guerra tra poveri travestita da necessità di sicurezza interna lanciato furbescamente da David Cameron?

 

E attenzione, il paese che ha fatto la rivoluzione industriale è capace di esportare tutto, anche le “primavere dello scontento”, virus sociale di facile presa anche in un paese come l’Italia, alle prese con potere d’acquisto a zero, inflazione, stipendi in calo, disoccupazione crescente e crescita esangue. Occorre mettere mano – e subito – agli squilibri sociali più evidenti, come prospettato dal working paper del Fmi dal titolo “Inequality, leverage and crises”, secondo cui la chiave della ripresa risiede nella riconquista da parte dei lavoratori della leva salariale e del potere d’acquisto. Altrimenti, stando al Fmi, «in contesti di squilibrio sociale ed economico tale, i disordini sono evenienze più che probabili. Così come guerre civili a bassa intensità».

Stiamo giocando col fuoco, in parole povere. A Londra, ieri, il report più letto era quello di Rabobank, istituto bancario leader nel prestito al settore agricolo, secondo cui «il numero di colonie di api incapaci di superare l’inverno negli Usa è salito al 35% dal dato storico e medio del 10%. In Europa siamo al 20% e lo stesso andamento riguarda anche l’America Latina e l’Asia». Direte voi, e chi se ne frega? Peccato che l’agricoltura che ci dà da mangiare si basa grandemente sull’impollinazione animale, con un tasso dall’80% al 90% da parte delle sole api: parliamo di un terzo dell’output agricolo mondiale.

 

Quel catastrofista di Albert Einstein diceva che «se le api sparissero dal mondo, l’uomo non vivrebbe per più di cinque anni», noi non ci spingiamo a tanto, ma il combinato di sicurezza alimentare a rischio e agflazione potrebbe davvero diventare il detonatore di un caos ingestibile. I segnali ci sono tutti, più nelle parole di David Cameron che nei dati di Rabobank o in quelli dell’Ufficio di Statistica britannico: forse la patrimoniale non è la risposta -anzi, quasi certamente non lo è – ma o si interviene adesso contro gli squilibri sempre crescenti oppure sarà tardi. Le guerre tra poveri sono le prime e le più facili da scatenare, spesso però sono le più difficili da gestire e concludere. Meno finanza, più crescita e lavoro: questa è la risposta.

 

Ricetta comunista? Il contrario, è il mercato drogato dai soldi a pioggia e a costo zero per banchieri incapaci e governanti ladri ad averci portato a questo; i comunisti sono Fannie Mae e Freddie Mac e non chi chiede stipendi in linea con il costo della vita. Occorre chiudere subito i rubinetti pubblici e alzare i tassi, agendo fiscalmente per riattivare la crescita e garantire un regime salariale che riporti il potere d’acquisto a un livello tale da funzionare come dinamo della spesa e dell’economia.

 

Le banche gestiscano risparmio ed eroghino credito alle Pmi e alle famiglie, smettendo con i giochini di derivati e finanza creativa e gli Stati parlino per una volta chiaro: se l’attivo presenterà ancora l’80% di esposizione esterna a leva rischiosa, partiranno sanzioni salatissime. Colpirli nel portafoglio, è l’unica ricetta che capiscono. E se per caso tentassero di rivalersi sui correntisti con aumento dei costi e restrizione del credito, ulteriori e più salate multe.

 

Sono tempi di emergenza, urgono misure d’emergenza. Avendo un governo che legifera e non si debba occupare di escort e delle fregole di eterni numeri due in vena di ribalta, poi, sarebbe più facile…