Hollis B. Chenery, l’economista americano che da giovane funzionario del Piano Marshall inventò, in una stanza di Via Veneto (con Vera Lutz e Gisele Podbielski), quella che sarebbe diventata la Cassa per il Mezzogiorno, ha passato la propria vita a studiare quali sono le caratteristiche di una politica di crescita.



Nella veste di Vice Presidente della Banca Mondiale aveva 200 economisti per coadiuvarlo e statistiche di 180 Paesi. Il succo delle sue ricerche – pubblicate in una dozzina di libri – è che occorre individuare con cura le determinanti principali e perseguire le strategie definite sulla base di questa individuazione con coerenza, costanza e pervicacia.



Se si individuano le determinanti errate (ad esempio, gli effetti invece delle cause, oppure elementi secondari invece dei principali) si parte con il piede sbagliato e il ruzzolone è probabile. Se non si perseguono strategie corrette con coerenza, costanza e pervicacia si finisce come nell’estate del 1992, quando i mercati pensarono che avevamo posto per celia la nostro firma a un Trattato di Maastricht di cui non ci interessava più di tanto, con le conseguenze che ricordiamo (un deprezzamento del 30% del valore internazionale della lira). Ciò è tanto più importante in queste ore in cui si sta mettendo a punto quello che dovrebbe essere un programma di crescita tale da dare una svolta all’Italia.



In effetti, da tre lustri l’Italia è piatta: il tasso di crescita del Pil è rasoterra; siamo l’unico Paese del G7 in cui dal 2001 al 2010 il reddito procapite ha segnato una riduzione dello 0,4% (rispetto ad aumenti dell’1% in quasi tutti gli altri). Le prospettive per l’avvenire non sono incoraggianti. I 20 maggiori istituti econometrici internazionali hanno stimato una crescita media attorno all’1,5% per l’eurozona nei prossimi 24 mesi, ma attorno all’1% per l’Italia.

Il Piano Nazionale di Riforme (Pnr) varato dal Governo a fine 2010 (e all’esame dell’Ue in aprile) propone un programma di liberalizzazioni per portare al 2% il tasso di crescita entro il 2013. Sarebbe già un grande successo, perché studi della Commissione Europea, della Bce e del National Bureau of Economic Research Usa (tutti distinti e distanti dalle nostre beghe) pongono all’1,3% l’anno il tasso di crescita “potenziale” dell’Italia. Un’analisi econometrica da me condotta, indica che il saggio potrà arrivate all’1,7% (ossia prossimo all’obiettivo del Pnr) se verranno effettuate tuttele misure indicate nel Piano di fine 2010.

Purtroppo si è cominciato male: facendo catturare il Consiglio Comunale della Capitale dall’oligopolio collusivo dei taxi e chiudendo un occhio verso chi commette veri e propri reati (per esempio chi ha modificato il tassametro o applica comunque le nuove tariffe nonostante la sospensione del provvedimento richiesta dall’Antitrust e imposta dal Tar). Tale segno di scarsa coerenza rischia d’inficiare l’intero programma di rilancio.

 

C’è il rischio che si prosegua peggio, che le misure pongano l’accento principalmente sulle liberalizzazioni senza tenere conto che l’eccesso di regolamentazione : a) è il risultato di una società vecchia (non la sua causa); b) tratta comunque di materie in gran parte di competenza di enti locali, con l’esito che senza una riforma costituzionale (in direzione diametralmente opposta al federalismo) si avrebbero vertenze senza fine a tutti i livelli di giudizio (sino alla Corte Costituzionale).

 

Che fare? Individuare bene le cause e, quindi, le cure:

 

A) La determinante principale è, in Italia, come in Giappone , l’invecchiamento della popolazione. Con il 14% degli italiani in età scolastica, e il 20% ultra-65enne , solo due terzi della popolazione è in età da lavoro e l’età media del lavoratore italiano supera i 45 anni. Se le tendenze in atto non mutano – in demografia il cambiamento richiede tempi lunghi – , nel 2050 meno del 14% sarà in età scolastica e il 34% circa avrà più di 65 anni. Una popolazione anziana non rischia, non crea impresa, non si getta con entusiasmo in nuove intraprese e non innova, chiede tutele dalla spesa o della regolamentazione pubblica (la miriade di regolamenti comunali – dai taxi ai negozi- ha questo obiettivo ed è ignota in Paesi a demografia giovane). Quindi, se non ancorata a una forte politica per la famiglia (unica strada percorribile per contrastare l’invecchiamento), gingillarsi con questa o quella liberalizzazione “è silenzio” (dice lo Shakespeariano “Amleto” nell’uscir di scena).

 

B) Una volta rilanciata un’efficace politica della famiglia (analoga, ad esempio, a quella che la Francia persegue con coerenza, costanza e pervicacia dal 1870), occorre, prima ancora delle liberalizzazioni, una politica industriale mirata alla ristrutturazione della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) sul tipo di quella realizzata Oltre Reno – il “Rapport Beffa” francese alcuni anni fa lo ha detto a chiare note all’Eliseo – negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen può essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna e altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente e ha permesso sia economia di scala sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.

C) In questo quadro, occorre giungere, d’intesa con i sindacati, a un aumento delle ore effettivamente lavorate. Secondo i dati Ilo, la media italiana è di 1450 ore, rispetto alle 1790-1670 di spagnoli, tedeschi e britannici. Sino a quando gli economisti ritengono che c’è un nesso tra ore effettivamente lavorate e valore aggiunto, non si può adottare la tecnica dello struzzo. Al tempo stesso, ciò comporta una vera rivoluzione sia nelle abitudini sia nei servizi sociali (integrati nel manifatturiero nelle grandi imprese tedesche e francesi).

 

D) A questo punto si hanno le condizioni per liberalizzazioni efficaci a livello locale nella foresta del capitalismo municipale, sempre in seguito a un’attenta verifica delle possibilità normative. A livello centrale, si può, senza dubbio, fare piazza pulita della giungla normativa, ma anche ciò richiede una legge costituzionale analoga alla “sunset regulation” (“regola del tramonto”) americana per far sì che tutte le norme siano a “termine” e alla scadenza debbano essere di nuovo approvate dalle autorità competenti (Parlamento, Consiglio Regionale e via discorrendo).

 

Cincischiare di crescita senza farla – diceva Chenery – porta al sottosviluppo incrementale.