Cerchiamo di capire più precisamente dove e perché cresce il rischio di inflazione energetica. L’Italia è vulnerabile a una interruzione dei flussi dalla Libia di petrolio e gas in quanto riceve da quell’area una percentuale significativa delle sue importazioni. Ma – in base a comunicati dell’Eni – ci sono riserve tali da poter assorbire per mesi l’interruzione e avere il tempo di trovare fonti sostitutive.
L’Italia, e non solo, avrebbe un problema assoluto di rifornimento se anche l’Algeria fosse destabilizzata e il canale di Suez bloccato. Tuttavia tale ipotesi è remota, sia perché l’Algeria appare stabile, sia perché Suez sarebbe immediatamente occupato militarmente dalla Nato con un forte sostegno internazionale, tra cui quello della Cina, e quindi dell’Onu.
Solo la Russia potrebbe, facendo un po’ di fantapolitica, restare disallineata per l’enorme vantaggio, in caso, di poter diventare l’unica fonte di rifornimento di gas e petrolio per l’Europa e dintorni. L’Iran avrebbe un interesse simile. Ma proprio per questo, l’Arabia Saudita porterebbe il consenso del mondo islamico-sunnita a favore dell’iniziativa Nato. E Mosca, alla fine, non oserebbe sabotarla.
Il mondo industrializzato non è coeso abbastanza per calmierare i prezzi petroliferi e del gas, ma è sufficientemente forte e motivato per mantenere aperti i flussi. Tale minore probabilità del caso peggiore tende a porre un tetto al rialzo dei prezzi. Ma tale limite non è sufficiente a evitare l’inflazione energetica. Dai primi anni del 2000, i prezzi petroliferi sono in tensione rialzista per la l’aumento di domanda delle economie asiatiche emergenti, Cina in particolare, pur America ed Europa consumando meno petrolio (ma più gas) grazie all’efficienza tecnologica crescente. E ciò durerà.
Poi c’è un nuovo fenomeno peggiorativo. L’America ha interesse ha svalutare il dollaro, almeno fino a che non si riprende in pieno, e i produttori – i prezzi di petrolio e gas sono determinati in dollari – tendono a bilanciare la caduta del valore di cambio alzando i prezzi. Tale situazione rende il settore petrolifero molto esposto a bolle di speculazione finanziaria che ulteriormente alzano i prezzi stessi. Poi c’è un’inefficienza aggiuntiva nel settore della raffinazione che li amplifica ancor di più.
In sintesi: magari il petrolio non schizzerà verso i 300 dollari al barile, perché è improbabile il blocco dei flussi (come nel 1973), ma potrebbe benissimo assestarsi tra i 100 (oggi) e 150 con punte sui 200. Tali cifre – il punto – avranno comunque la conseguenza di scatenare un’ondata di inflazione globale. Con un’enorme complicazione. L’inflazione generata via aumento dei costi energetici non può essere contenuta in modo calibrato dai tipici strumenti di politica monetaria.
Per esempio, l’inflazione dovuta alla crescita economica è controllabile in modo modulabile alzando il costo del denaro per rallentare un po’ la crescita stessa. Ma per combattere l’inflazione indotta dal rialzo dei prezzi dell’energia c’è la sola opzione di mandare un’economia in recessione per tagliare la domanda assoluta di energia. Cioè, indurre un disastro per evitare la catastrofe, come già successo a causa del rialzo eccessivo dei tassi in America ed Eurozona dal 2005 al 2008.
In conclusione, il rischio dovuto alla specifica turbolenza mediterranea appare contenibile, ma quello sistemico dell’inflazione lo è molto meno. Soluzioni? Una sola: cambiare tecnologia e liberarsi dalla dipendenza da petrolio e gas e, nel frattempo (almeno 20 anni) prenderne il controllo geopolitico dei prezzi.