Domani sapremo cosa ci attende per il futuro e non mi riferisco al vertice europeo, visto che quello appare già da ora l’ennesimo esercizio di stile mentre le fondamenta dei periferici marciscono giorno dopo giorno, erose da rendimenti stellari e debito ingestibile.
Parliamo di petrolio, il cui prezzo negli ultimi due giorni sembrava essersi stabilizzato dopo i picchi della scorsa settimana, ma che resta l’osservato speciale dei mercati in vista della “giornata dell’ira” degli sciiti prevista per domani in Arabia Saudita e destinata a essere replicata il 20 marzo. Nonostante re Abdullah abbia stanziato miliardi di dollari in aumenti salariali e per la creazione di nuovi posti di lavoro e il governo abbia liberato un discreto numero di prigionieri politici sciiti, gli appelli su internet si intensificano e i timori crescono con il passare delle ore, tanto che un sondaggio compiuto da Cnbc ha visto nove analisti su dieci prevedere un aumento del prezzo del greggio entro la fine di questa settimana.
«È paura, pura paura di un blocco delle forniture a breve termine. La gente non ha paura di non avere petrolio nel barile, ma del fatto che non ci sia più petrolio che arriva dal Medio Oriente. Per far passare la paura c’è un’unica ricetta, le rivoluzioni devono finire», sentenzia John Vautrain, vice-presidente dell’azienda di consulenza sul petrolio Purvin&Gertz di Singapore.
Descrivendo quello che definisce «il peggior e più estremo scenario possibile» per il mercato del petrolio, Societe Generale ammette che il Brent potrebbe salire fino a 200 dollari al barile se un’ondata di violenta rivolta dovesse prodursi in Arabia Saudita: «In quel caso, non avrebbe più importanza che la Libia o altri produttori siano attivi o meno. L’Arabia Saudita è il più grande dei produttori dell’Opec e il detentore mondiale di riserve. Se la produzione e l’esportazione saranno intaccate o se ci sarà la percezione di una seria minaccia, l’impatto sul mercato sarà tragico», conclude Michael Wittner, secondo cui «si rischiano conseguenze serie per l’economia globale. Potremmo, infatti, andare incontro a grossi downgrade della crescita globale del Pil e anche della crescita della domanda di petrolio. In questo scenario, c’è l’assoluta certezza che l’International Energy Agency dovrà mettere mano alle riserve strategiche».
Ma a prospettare scenari foschi ci ha pensato ieri anche Goldman Sachs, la quale sospetta che l’Opec stia pompando più petrolio della sua quota concordata già da novembre, ovvero prima della crisi mediorientale e quindi per alzare la produzione dovrà mettere mano alle riserve. Per Jeff Currie, guru petrolifero della banca d’affari, la produzione saudita è già cresciuta di 700mila barili al giorno prima della guerra civile in Libia e dello shock petrolifero: «Pensiamo che la spare capacity (con questo termine si intende la differenza tra offerta e domanda nel mercato di un determinato bene. Da questa definizione risulta chiaro il ruolo della “spare capacity” come cuscinetto di sicurezza del mercato: quando la domanda cresce improvvisamente – ad esempio, per eventi come le rivolte mediorientali – si fa ricorso alle scorte di spare capacity accumulate nel tempo ma, chiaramente, quando queste vengono intaccate per un aumento della domanda, il mercato si fa teso e il prezzo del bene considerato tende a salire) dell’Opec sia già scesa sotto quota 2 milioni di barili al giorno. La questione, quindi, è capire quanta spare capacity rimane disponibile per assorbire eventuali blocchi in altri paesi».
Se questo quadro fosse reale, possiamo tranquillamente dire che siamo ai livelli che portarono agli aumenti folli di metà 2008. Superato un certo punto, infatti, la spirale dei prezzi esplode con forza ingestibile fino a quando il danno economico non fa crollare la domanda. La sola crisi libica, di fatto, ha già ridotto la spare capacity di un terzo e le speranze di una soluzione rapida a Tripoli stanno lasciando spazio ai timori di una prolungata instabilità: una decina di nuovi progetti estrattivi nel Golfo della Sirte previsti per la metà di questa decade, infatti, sono già stati postposti a data indefinita.
Chris Skrebowsky, direttore di Petroleum Review, è convinto che il crunch petrolifero, per troppo tempo negato, oggi stia cominciando a mordere: «Ci siamo crogiolati per anni sotto la confortevole coperta del fatto che la spare capacity esistesse, ma questo è pura finzione o, comunque, qualcosa di non realistico. Se togli dal quadro 2 milioni di barili al giorno, l’intera dinamica della fornitura globale di petrolio cambia». I dubbi, d’altronde, sono cresciuti parecchio dopo che un geologo saudita ha reso noto, tramite WikiLeaks, che le riserve del Regno sono sovrastimate del 40%.
Ecco, quindi, che alcuni investitori cominciano a vedere guai all’orizzonte e stanno comprando opzioni petrolifere per un controvalore di 150 e 200 dollari al barile con data di scadenza al termine di quest’anno, sia come scommessa che come assicurazione dalle turbolenze in Medio Oriente. Barclays Capital ha confermato che le ozpioni “call skew” sono più sottopressione oggi che durante il picco del 2008. L’implicazione chiara è che il mercato sia convinto che la crisi non finirà in tempi brevi, anche perché gli eventi di questo ultimi mesi hanno creato una reale rottura strategica: l’intero ordine politico mediorientale è in effetti disintegrato, situazione che potrebbe determinare anni di instabilità nella regione che fornisce il 36% del petrolio globale e detiene il 61% delle riserve provate.
Paradossalmente, ci tocca tifare per la repressione wahabita del “giorno dell’ira” previsto per domani o sperare che la polizia segreta saudita agisca come quella siriana, capace di ridurre al silenzio la piazza attraverso false notizie e intimidazioni preventive: se i mercati avranno anche solo la percezione che Riad non sia in grado di gestire le proteste, lo shock petrolifero sarà tale da distruggere qualsiasi ipotesi di ripresa globale. Nessuno, d’altronde, sa quale sia l’inflexion point: per Bank of America siamo già nell’area di pericolo, visto che la percentuale di incidenza dei costi energetici sul Pil globale ha toccato l’8,5%, vicino al massimo storico.
Deutsche Bank avverte, inoltre, che le dinamiche dei picchi sono quasi sempre fiammate ingestibili e mette in guardia da un possibile aumento a 150 dollari il barile, livello definito «abortivo» per la ripresa mondiale. A certificare la gravità della situazione ci ha pensato, infine, l’ex capo della Fed, Alan Greenspan, secondo cui «quando i prezzi del petrolio salgono fino all’attuale area e cominciano a dare segnali di possibili, ulteriori rialzi, allora quello è il momento di cominciare a preoccuparsi». E Greenspan, si sa, è uno che di disastri se ne intende.
P.S. La Reuters ci informa che nella tarda mattinata di ieri forze aeree fedeli a Gheddafi hanno bombardato depositi di petrolio nel terminal di Es Sider. Scommettete che la decisione di imporre una no-fly zone ora verrà adottata alla velocità della luce? Così, tanto per dimostrare che a Stati Uniti e Gran Bretagna stanno a cuore le sorti dei civili e non del petrolio libico.