Un bicchiere mezzo pieno può trasformarsi, in breve tempo, in un bicchiere mezzo vuoto. Così i segnali di ripresa dell’economia italiana, che pure si manifestano in maniera abbastanza convinta (vedi il minor ricorso alla cassa integrazione) possono ribaltarsi se continuerà il movimento al rialzo del prezzo del petrolio. O, peggio ancora, se le tensioni inflazionistiche in arrivo dal fronte delle materie prime si tradurrà in un aumento generalizzato dei tassi.



È questa la diagnosi del direttore generale di Confindustria, Giampaolo Galli, che ha comunque ribadito, nel corso della sua audizione alla Camera, che l’Italia continua a crescere meno delle altre economie avanzate, accumulando un ritardo sempre più marcato, che si riflette nei redditi e nei consumi. Di questo passo, la speranza di poter alzare il tasso di crescita oltre l’asticella del 2%, condizione necessaria per poter recuperare il Pil perduto dal 2007 in poi in tempi non biblici, è destinata a restare una chimera.



Di qui, aggiunge Galli, la necessità di “una riflessione seria sulle strozzature che ostacolano la crescita economica”. Qualcosa che vada al di là della ricetta elaborata dal governo che Galli liquida come “poco ambiziosa”. La direzione, insomma, può essere giusta. Ma manca l’intensità necessaria, a partire dalle riforme che dovrebbero liberare, se approvate, le imprese da molti adempimenti burocratici.

Nonostante le promesse, sono in pochi a credere che il governo riesca a far marciare la riforma in una stagione politica così turbolenta. Eppure, come ha di recente ribadito il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, “se la legislazione non è trasparente, di qualità, stabile, se gli oneri amministrativi non sono proporzionati alle attività che si devono regolare, l’economia alla lunga declina”.



Anche il governatore ha chiesto più coraggio e maggiore ambizione riformatrice. Al governo, ma anche alle imprese: “La propensione all’innovazione e la proiezione internazionale delle nostre imprese sono insufficienti a sospingere la crescita, in ultima analisi perché troppe imprese, anche di successo, rimangono piccole”. Parole pronunciate a Verona a fine febbraio: cioè un paio di settimane prima dell’annuncio della cessione di Bulgari a Lvmh.

 

È il costo delle mancate riforme, ammonisce a distanza Nouriel Roubini, che ieri ha dedicato una parte del suo intervento sulla congiuntura internazionale al Mipim di Cannes (la fiera immobiliare più importante) proprio all’Italia, Paese che “ha molte opportunità da offrire. Però il peso delle riforme mai fatte lo rende meno appetibile agli occhi degli investitori internazionali”. A tutto questo va aggiunto l’handicap della crescita “lenta”, il mancato incremento del reddito pro-capite, l’invecchiamento della popolazione, un sistema fiscale bisognoso di essere riformato.

 

Insomma, la diagnosi delle parti sociali, del governatore e di un osservatore internazionale che guarda all’Italia, dove si è laureato, con un occhio particolare, concordano: l’economia italiana non può limitarsi di avanzare al traino della congiuntura internazionale, nella speranza che la ripresa degli altri ci trascini in avanti. Non solo perché l’ascesa dei prezzi delle materie prime minaccia di comprimere ancor di più i margini già esigui delle imprese, che non possono scaricare sui listini di vendita i maggiori costi. E nemmeno perché si moltiplicano i segnali di rallentamento delle grandi locomotive della ripresa, a partire dalla Cina.

 

No, il vero problema sta nei ritardi strutturali accumulati da un tessuto produttivo che accusa un’insufficiente propensione all’innovazione e ha, in genere, una proiezione internazionale meno marcata di altri concorrenti.

Può sembrare improprio risollevare questi temi, che rischiano di apparire di scarsa attualità perché vengono da lontano, proprio adesso, quando l’attenzione è concentrata sulla riforma della giustizia o sul federalismo. Ma guai se non si sfrutta a dovere questa piccola finestra di ripresa dell’economia per mettere in moto un circuito virtuoso.

 

Presto, la congiuntura internazionale ci proporrà nuove emergenze: la situazione del sistema bancario spagnolo, avverte Moody’s, è semplicemente esplosiva e, non a caso, il bollettino trimestrale della Bce rileva che il rischio di una nuova crisi sul fronte dei debiti sovrani è più alto che mai. Non è il caso di illudersi di poter praticare una politica espansiva, insomma. O di elargizioni a pioggia come quelle che, improvvidamente, vennero garantite alle energie rinnovabili con la cosiddetta “legge Alcoa”, ovvero il provvedimento varato per convincere la multinazionale Usa a conservare l’insediamento industriale in Sardegna.

 

È il momento di osare: più che una patrimoniale o di provvedimenti shock sul fronte delle entrate, è l’ora di giocare la carta di aliquote più basse e meno incentivi per convincere gli imprenditori che è giunta l’ora, finalmente, di crescere. Senza essere obbligati a vendere il controllo delle imprese all’estero per poter competere.