Un Paese strano, anzi stranissimo. Dopo aver vivacchiato per cinquant’anni nelle retrovie europee per la graduatoria sulla presenza di donne nei consigli d’amministrazione delle società quotate, ventinovesimo Paese sui trentatre censiti, l’Italia si è dotata di una legge sulle “quota rosa” che saranno obbligatorie in quei consessi, seconda soltanto, per forza impositiva, a quella in vigore in Norvegia, tanto da essere contestata per l’eccessiva direttività dalla stessa presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, prima donna a ricoprire quel ruolo. Come dire: o tutto o niente.
Qualcosa del genere sembra di poter cogliere nel vento di rinnovamento anagrafico che sta soffiando sui vertici di molte aziende italiane. Dopo decenni di gerontocrazia conclamata, adesso sembra che cinquant’anni siano il massimo per ottenere incarichi importanti. Quasi che la giovane età fosse un valore professionale in sé, come il sesso femminile. Il caso di Telecom Italia è esemplare, in questa temperie, per molte ragioni, prevalentemente positive, ma non estranee ai tempi.
Il colosso italiano delle telecomunicazioni è controllato con il 22,4% del capitale da una holding non quotata, chiamata Telco, che a sua volta fa capo per il 44% al gruppo spagnolo Telefonica e per il 56% a una compagine italiana guidata dalle Generali con Mediobanca e Intesa Sanpaolo. A Telco compete la responsabilità di designare la lista dei consiglieri di maggioranza, dalla quale viene poi nominato il capo-azienda.
Tre anni fa i soci Telco diedero luogo a un balletto di trattative che superò, per antiesteticità, le peggiori schermaglie politiche tra i partiti quando si tratta di designare i manager pubblici. Stavolta è andata meglio, perché per raggiungere l’accordo è bastata una settimana di slittamento delle scadenze di calendario: all’amministratore delegato uscente Franco Bernabè è stato sostanzialmente confermato il ruolo di capo dell’azienda, sia pure nella posizione più elevata ma meno operativa di presidente esecutivo; un top-manager dotato, insomma, delle deleghe di controllo sull’amministratore delegato vero e proprio, ma non di tutti i poteri gestionali del capo-azienda unico. Quindi Bernabè presidente, Marco Patuano amministratore delegato con responsabilità specifica sull’Italia e Luca Luciani direttore generale con responsabilità specifica sul Sud America.
Sono due manager giovani – del ’64 il primo, del ’67 il secondo – hanno entrambi all’attivo la gestione delle attività di Telecom in Sud America, le sole che oggi diano una apprezzabile redditività e interessanti prospettive di sviluppo. Si sono rivelati validi, determinati, incisivi… niente da eccepire.
Due annotazioni si possono fare, però. E non riguardano l’inchiesta giudiziaria in cui Luciani è stato coinvolto proprio all’indomani dell’annuncio della nomina a direttore generale, un’inchiesta per un’oscura accusa di truffa legata a milioni di carte-sim che sarebbero state sostanzialmente regalate anziché vendute, allo scopo di gonfiare traffico e fatturato: se una cosa del genere si rivelasse vera, e nota al manager, qualunque discorso andrebbe chiuso qui, con l’espulsione del colpevole. Ma vige la sacrosanta presunzione di innocenza e su Luciani per ora non c’è che un’accusa, peraltro di correità rispetto all’ex amministratore delegato Riccardo Ruggiero.
No, va sottolineata una specie di ansia al ringiovanimento, propugnata soprattutto dall’attuale vertice di Mediobanca, il 53 enne presidente Renato Pagliaro e il 45 enne amministratore delegato Alberto Nagel, che dopo aver sofferto per vent’anni, insieme, il gioco della gerontocrazia per antonomasia di questo Paese, quella che si incarnava nel celeberrimo capo dell’istituto, Enrico Cuccia, e aver ancora patito la gestione del successore Maranghi e poi dell’ultimo presidente “anziano” Cesare Geronzi, sembrano spinti dalla valutazione che svecchiare i vertici manageriali sia in sé un bene: non lo è, come non è un male, e fino ad almeno i 70 anni è chiaro che anche l’età avanzata non deve essere né un pro, né un contro. Ma, come per le quote rosa, adesso le quote giovanili sembrano diventate un must.
Tant’è: sono mode manageriali, chiunque abbia un po’ di memoria storica ne ricorda di cotte e di crude, e soprattutto sa che sono cicliche. Per dieci anni vanno di moda le conglomerate, poi gli spin-off; poi tornano di moda le holding, poi le aggregazioni verticali… E anche nei criteri di scelta del manager c’è ciclicità e pendolarità di moventi.
Sul conto di Luciani, però – nel momento stesso in cui gli si riconoscono i meriti manageriali sull’Argentina (e non solo) e la presunzione d’innocenza nell’inchiesta – bisogna ricordare il celebre episodio di Waterloo. Per chi non lo conoscesse, s’impone una visitina a You Tube per guardare un video che ha fatto il giro del mondo, per la gaffe reiterata sulla battaglia di Waterloo citata come esempio di vittoria napoleonica, anziché come quella disfatta che fu. Ma è chiaro che non era uno svarione, bensì soltanto un lapsus: come il manager spiegò a caldo, nella foga di un discorso indubbiamente appassionato, gli era scappato un errore paradossale.
Il problema che quel video ancora oggi rivela è in realtà ben diverso, ed è quello di un approccio alla gestione delle risorse umane – era una convention motivazionale per i venditori della Tim – che trasuda un’impostazione retorica che di giovane non ha proprio nulla, che emana disvalori di tipo antagonista, ricorda più l’appello di Al Pacino in Ogni maledetta domenica alla squadra di football che rischiava la sconfitta che non un discorso professionale quale bisognerebbe augurarsi.
Per non parlare delle male parole che lo condivano (“Perché ho la faccia incazzata?” , è la domanda d’esordio del top-manager rivolto alla platea dei suoi dipendenti: una roba da scadente maestro di scuola elementare nei quartieri popolari di una città malavitosa). Da questa impostazione, la metafora bellica su cui il manager scivolò: il lavoro commerciale come battaglia contro ipotetici nemici – si suppone i concorrenti – e non a favore di qualcuno o di qualcosa (i clienti, l’efficienza del servizio): “Si sbaglia quando si è accecati dalla foga della passione – s’era schermito in manager – e mi dispiace enormemente per questa squadra favolosa che non meritava questo».
Retorica, retorica, retorica. E arroganza aggressiva, non passione. Anche questa della “squadra favolosa” è una metafora sportiva, che non ha niente a che fare con i valori dell’uomo nel lavoro e nel mercato… ma tutto il video, ben al di là dello svarione, meriterebbe un’esegesi su questi criteri. Vecchi, offensivi della dignità dell’intelligenza della platea: ma chi l’ha detto che i venditori debbano essere trattati come imbecilli, come cani da riporto davanti ai quali sventolare la preda? Mistero.
Sono passati alcuni anni, Luciani è maturato e ha dimostrato che, Waterloo o non Waterloo, ha saputo portare all’azienda risultati determinanti. Complimenti per questi e per la meritata promozione. E naturalmente tutti gli auguri di riuscire a dimostrare la piena estraneità dall’accusa – in sé gravissima – che gli è stata mossa dalla Procura. Ma, soprattutto, l’augurio di non confondere più il mercato con un campo di battaglia.
È un cattivo pensiero che può anche sorgere spontaneo nella mente di un manager incalzato dai budget e dagli obiettivi di vendita, ma va comunque risospinto via, non elevato a canone ispiratore per i discorsi di incitamento. Un’idea, questa, che di giovanile e di innovativo non ha proprio un bel niente.