Il mondo dell’economia e della finanza, nella maniera più drammatica possibile, sta riscoprendo il fatto che il Giappone è il primo creditore al mondo con oltre 3 trilioni di dollari di assets all’estero netti. È questo ad aver fatto deragliare le Borse di tutto il mondo negli ultimi giorni? Non solo, i mercati scontano in anticipo altro.
Ovvero, il fatto che il rischio insito in questa situazione diviene doppiamente pericoloso se combinato con la rapida escalation del conflitto nel Golfo Persico, dove l’Arabia Saudita ha inviato le proprie truppe in Bahrain per reprimere le proteste della maggioranza sciita, decisione che potrebbe dar vita a un letale showdown di Riad con l’Iran.
Per David Bloom, capo del valutario a Hsbc, «la gente pensava che la ripresa mondiale fosse autosostenuta e ora invece i mercati stanno cominciando a chiedersi se quanto sta accadendo possa spegnere ogni speranza in tal senso». Le due crisi, infatti, sono arrivate quasi in contemporanea, mentre l’Occidente era in preda a una stretta fiscale e l’Oriente affrontava una stretta del credito: per molti economisti Usa, tra cui Paul Krugman, la ripresa non aveva ancora raggiunto la “velocità di fuga”, rimanendo quindi vulnerabile agli shock esogeni.
Il problema è che gli analisti di Hsbc vedono analogie tra i pattern del crash del 1987, della crisi asiatica del 1998 e del collasso di Lehman Brothers: il rimpatrio violento e repentino di quella massa di yen investita in giro per il mondo che di fatto rappresenta un “fondo di crisi”. L’impatto, oggi, sarebbe poi ancora più duro visto che il Giappone andrà incontro a un periodo di depressione della crescita e dei consumi, oltre che di razionamento energetico dovuto alla chiusura di 11 reattori nucleari.
Detto fatto, l’appetito giapponese per obbligazioni di paesi come Brasile, Sud Africa e Australia è già sparito, tagliando di netto la principale forma di finanziamento fresco per quei paesi. L’effetto più grande di questa disaffezione verso i bonds è quello di una liquidazione di assets globali venutisi a creare durante gli anni d’oro del “carry trade”, quando assicurazioni, fondi ma anche impiegati e casalinghe giapponesi (la mitica signora Watanabe, come veniva scherzosamente definita nella City) andavano alla caccia di alti rendimenti all’estero sfruttando i tassi a zero. E questi assets includono equities britanniche, fondi di commodity, ma anche i bonds municipali Usa, la principale fonte di finanziamento delle città statunitensi e già definiti in ambienti finanziari come i “nuovi subprime” pronti a esplodere portando con sé bancarotte a catena.
Questo è il motivo per cui un terremoto, per quanto devastante, che ha colpito una regione che conta per il 6% dell’economia giapponese, sta di fatto innescando una reazione globale. Altri pericoli sono poi in agguato. CreditSights, infatti, ha messo sotto osservazione le prime tre banche giapponesi, le quali detengono 1 trilione di dollari di equities locali: queste holding sono già con l’acqua alla gola visto che l’indice Topix della borsa di Tokyo è già sceso una volta sotto la quota di emergenza di 800 punti, esattamente a 767.
Per Hans Redeker di BNP Paribas, «il vero “punto di pressione” sta nel portafoglio da 3,9 trilioni di dollari di bonds governativi detenuti dalla banche, anche perché la stretta fiscale che il terremoto porterà con sé giunge in un periodo in cui le entrate fiscali coprono già metà del budget nipponico, il debito pubblico è al 225% del Pil e i fondi pensioni sono divenuti venditori netti di bonds per riuscire a pagare le buonuscite agli anziani». C’è poi quella che nella City viene definita la “variabile 77”, dal nome della 77 Bank, un’istituzione finanziaria con sede a Sendai, la città maggiormente colpita dal terremoto e con una quota di mercato pari al 50% in quell’area metropolitana.
Stando all’analisi di un hedge fund australiano, i danni non assicurati nell’area di Sendai saranno i più alti di tutte le precedenti tragedie nella storia: e quei danni ricadranno principalmente sulle banche, le quali magari hanno anche sottoscritto cat-bonds e ora si trovano a dover pagare il costo di quella scommessa di riassicurazione. 77 Bank rischia quindi di dover far fronte a perdite enormi, anche in vastissima scala su prestiti senza avere un profittabilità pre-tasse che possa tamponarne l’effetto sugli assets e sul bilancio. Questo spiega sia il nervosismo sul mercato obbligazionario giapponese, nel quale nei mesi scorsi si sono buttati a pesce sia banche regionali che megabanche (77 Bank in testa), sia l’attivismo anche un po’ scomposto della Bank of Japan.
Mentre in Giappone accade tutto questo, gli eventi in Bahrain portano una minaccia letale nell’epicentro della fornitura petrolifera globale. I manifestanti sciiti hanno denunciato l’arrivo delle truppe saudite in difesa del re sunnita come un “atto di guerra”, trasformando di fatto ciò che un mese fa era nato come un movimento per reclamare maggiore libertà in una potenziale rivolta settaria sciita, componente che vanta il 70% dell’isola e con radici arabo-iraniane.
Non è un caso che Teheran abbia definito “inaccettabile” la mossa di Riad e lasciato intendere che un’ulteriormente violenta repressione, troverebbe nell’Iran una risposta. Per l’agenzia di intelligence Exclusive Analysis «è da mettere in preventivo un uso massiccio e deciso della forza contro i manifestanti in Bahrein se questi alzeranno il tiro, atto che potrebbe portare l’Iran ad attivare le sue milizie di confine per portare a termine attacchi contro le forze speciali».
Questa ipotesi potrebbe dar vita a uno stato di latente guerriglia tra le due superpotenze del Golfo e innescare una rivolta sciita nella provincia orientale dell’Arabia Saudita, dove si trova il mega-giacimento petrolifero di Ghawar. Per David Murrin di Emergent, gli eventi sono divenuti ormai infermabili: «Non si può rimettere nella lampada il genio della rabbia sciita e tantomeno i sauditi possono cercare di comprarli o corromperli, c’è di fatto già in atto una rivoluzione in una regione che sostiene l’economia americana e il dollaro».