“I buoni risultati di oggi sono la conseguenza dei buoni principi di sempre. Non abbiamo seguito le mode passeggere, ma perseguito il bene comune. Con la bussola giusta, con i piedi per terra, un passo dopo l’altro, gli italiani e l’Italia stanno andando nella giusta direzione”. Con queste parole il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha salutato ieri i dati dell’Istat che hanno evidenziato una crescita del Pil italiano dell’1,3% nel 2010 (le stime parlavano di un +1,2%) e un rapporto deficit/Pil al 4,6%. Numeri incoraggianti, che però si scontrano con i timori di un’inflazione crescente. Sempre ieri, infatti, l’Istat ha comunicato che a febbraio l’indice dei prezzi è arrivato al +2,4%, una crescita che non si vedeva dal 2008, spinta dal rialzo dei prezzi delle materie prime alimentari ed energetiche. Un fenomeno che, ci spiega l’economista Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, nasce “da fattori soprattutto esterni alla vera dinamica dell’economia reale” e “che può farci perdere competitività”.
Innanzitutto, cosa pensa delle parole del ministro Tremonti?
Mi trovano d’accordo. Infatti, il dato sul Pil è molto positivo, perché l’Italia non ha fatto spesa pubblica quest’anno, anzi ha attuato una rigorosa politica di bilancio, tanto è vero che il deficit pubblico è stato pari al 4,6% del Pil ed è andato sostanzialmente a pagamento degli interessi sul debito, dato che il disavanzo primario è stato dello 0,1%. Abbiamo fatto una politica di rigore sui conti pubblici che altri non hanno fatto, tant’è che se gli altri paesi avessero ridotto la spesa pubblica come abbiamo fatto noi, la crescita della Francia degli ultimi cinque trimestri sarebbe stata inferiore a quella italiana. Nel valutare una crescita, bisogna sapere distinguere tra una che è spontanea, seppur lenta, come la nostra, che procede sulle proprie gambe senza droghe né private, né pubbliche, da una “spintanea”, basata cioè sulla spesa pubblica.
In questo periodo si parla molto di dare “frustate” all’economia italiana. Lei cosa ne pensa?
Personalmente ritengo che l’economia ha già avuto tante tribolazioni negli ultimi tempi e quindi non gli infliggerei alcuna “frustata” particolare. Cercherei di assecondare la ripresa che stiamo sperimentando attraverso semplificazioni dell’attività delle imprese e rilanciando, laddove i fondi sono spesi, ma con ritardo, le opere pubbliche e gli investimenti, senza per questo derogare minimamente da quella che secondo me è la stella polare da seguire: il rigore sul deficit. Siamo, infatti, entrati in un’era di ricorso massiccio al collocamento del debito pubblico sui mercati finanziari. E poiché questi sono molto selettivi, i paesi che vengono premiati sono quelli che hanno i conti in ordine. E da questo punto di vista va detto che il nostro disavanzo primario, pari allo 0,1%, è il migliore dell’intera Eurozona. Stiamo uscendo dalla crisi con la sindrome di quelli che si riprendono a tassi meno veloci degli altri, ma il nostro passo di ripresa, lenta, ma solida, è avvalorato dalle ultime indicazioni fornite ieri dall’indagine di Markit sull’indice Pmi, che parla di massimi da record nella crescita della produzione e nei nuovi ordini destinati all’estero per il mese di febbraio. Dovremo solo fare attenzione a che non ci siano delle fiammate inflattive troppo forti.
A questo proposito, ieri l’Istat ha comunicato che l’inflazione a febbraio si è attestata al 2,4%. È un dato che ci deve preoccupare?
Nonostante gli allarmismi di certi titoli dei giornali (il 2008 era pochi mesi fa e non c’era la crisi), un’inflazione al 2,4% è tutto sommato sopportabile. Il rischio inflattivo purtroppo non dipende soltanto dal fatto che la ripresa in atto determina un aumento della domanda delle materie prime industriali, ma da fattori soprattutto esterni alla vera dinamica dell’economia reale.
Quali sono questi fattori?
Da una parte c’è una formidabile pressione della domanda asiatica, cinese in particolare, sia sulle materie prime agricole e alimentari che su quelle industriali. La Cina, che è il quarto produttore di semi di soia, ne ha bisogno ormai di così tanti per i suoi consumi da importarne una quantità maggiore all’output del terzo produttore mondiale (l’Argentina). L’economia di Pechino, inoltre, da sola copre il 45-50% della domanda mondiale di metalli. Dall’altra parte ci sono le politiche di quantitative easing messe in atto dalla Fed, che ha comprato massicciamente titoli di stato americani, stampando moneta e creando un eccesso di liquidità che si è riversata in particolare nella speculazione sulle materie prime. E queste sono state tra i detonatori (fermi restando i danni provocati dagli incendi in Russia, dalla siccità e dalle incertezze sull’andamento dei raccolti) delle rivolte in Nord Africa, al di là dell’insopportabile oppressione di regimi totalmente anacronistici. L’Egitto, per esempio, è il più grande importatore mondiale di frumento, ma è anche un Paese dove molta gente vive con meno di due dollari al giorno e non può quindi sopportare aumenti del 30% in un anno dei prezzi dei cereali.
E le rivolte in Nord Africa a loro volta hanno fatto salire i costi del petrolio.
Esatto, e questo ha fatto aumentare l’inflazione e, come sempre succede quando c’è inflazione, la speculazione si butta ulteriormente sulle materie prime. È un processo molto pericoloso, alimentato da questa politica americana di stampare “carta straccia”, che non rappresenta certo il modo di guarire un’economia che si è ammalata proprio perché si è indebitata. Dopo lo “sconfinamento” della crisi americana, gli Stati Uniti, per salvare i loro conti, stanno sfasciando quelli degli altri con il quantitative easing. Non bisogna poi dimenticare che la Cina, per compensare il calo dell’export dovuto alla crisi dei paesi occidentali importatori, ha deciso di accrescere gli investimenti infrastrutturali interni, aumentando la sua richiesta di materie prime quali il rame, che non a caso ha raggiunto i suoi massimi storici. Le imprese manifatturiere italiane, purtroppo, si trovano in mezzo a questa situazione, dato che hanno bisogno di materie prime da lavorare (per esempio, rame e ottone per i motori elettrici o le rubinetterie). È un problema che può farci perdere competitività.
Dobbiamo preoccuparci del fatto che, sempre ieri, la Commissione europea ha rivisto al rialzo le stime di crescita del Pil 2011 di molti paesi, ma non dell’Italia (la stima resta invariata all’1,1%)?
Tenga conto che a ottobre (quindi solo pochi mesi fa) la Commissione europea dava la crescita italiana per il 2010 all’1,1% e quella della Gran Bretagna all’1,8%, mentre poi è stata dell’1,3% come la nostra. Il nostro deficit era previsto al 5% del Pil, mentre invece è stato del 4,6%, e il saldo primario era dato al -0,4% (il dato effettivo è del -0,1%). Il debito pubblico storico così alto certamente fa sentire il suo peso, dato che il 4,5% del Pil è andato via solo per interessi. Fortunatamente, la metà di questi è andata a investitori italiani, anche se l’altra metà va ad accrescere lo stock di debito estero.
Negli ultimi mesi, proprio per ridurre il debito pubblico, sono state proposte operazioni di finanza straordinaria come l’imposta patrimoniale (seppur in diverse varianti) o la dismissione di parte del patrimonio pubblico. Cosa ne pensa?
Il Governo è stato fortunatamente molto chiaro riguardo l’ipotesi di una patrimoniale: sarebbe assurdo punire in Italia il risparmio privato, che è la nostra maggior forza. Quando ho dimostrato che l’Italia ha tra i maggiori paesi avanzati il più alto rapporto tra ricchezza finanziaria netta delle famiglie e Pil, non l’ho fatto per evidenziare che c’erano delle risorse cui attingere per abbattere il debito pubblico, ma proprio per dimostrare che non è necessario farlo.
In che senso?
Il parametro debito/Pil è quanto di più “stupido” ci sia per capire i rischi finanziari di un Paese: basti pensare che l’Irlanda fino a due anni fa ne aveva uno “splendido”. L’Italia, avendo il debito privato più basso del mondo, non ha un problema strutturale di squilibrio finanziario. Può quindi “garantire” il suo debito attraverso la ricchezza privata. Non mi permetto di dare suggerimenti su come abbattere il debito pubblico, ma sono personalmente convinto che una strada cruciale sia quella di ridurre la spesa improduttiva. Naturalmente, questa è un’operazione che ha dei costi politici, perché fa perdere voti più che guadagnarne, però è la strada principale da seguire, seppur accompagnata da ulteriori azioni, quali la vendita di alcuni cespiti di patrimonio pubblico, in particolare quelli in mano agli enti locali, che a volte sono gestiti in maniera non economica e che quindi è meglio che siano avviati verso il mercato.
Sempre ieri l’Istat ha diffuso i dati sulla disoccupazione, che parlano di un tasso giovanile che ha raggiunto il 29,4% a gennaio. C’è qualche speranza di risolvere questo problema?
La disoccupazione giovanile resta un problema cruciale, anche se va detto che il dato è in gran parte influenzato dal cronico alto tasso di disoccupazione giovanile del Mezzogiorno: nelle Isole, infatti, sfiora il 40% e nel Sud supera il 35%. Ma se consideriamo il Nord-est, abbiamo un dato intorno al 15%, inferiore a quello dell’Ile de France, mentre nel Nord-ovest (20%) è sotto il livello dell’inner London (dati Eurostat consolidati per il 2009). Un po’ di conforto ci arriva anche dalle indicazioni dell’indagine Markit di cui ho parlato prima. Sempre a febbraio, infatti, si registra una creazione di posti di lavoro al ritmo più rapido degli ultimi dieci anni.
(Lorenzo Torrisi)