Ormai lo sanno anche i gatti della zona archeologica di Largo di Torre Argentina: alla prossima riunione del Consiglio direttivo della Banca centrale europea (Bce) i tassi direttori per l’eurozona verranno aumentati dello 0,25%. Si tratterà di un primo aumento con il quale le autorità monetarie europee daranno un segnale ai mercati; prima dell’estate, l’incremento complessivo potrebbe essere di un punto percentuale, con un sostanziale raddoppio rispetto ai livelli attuali.
La strategia di comunicazione della Bce è stata questa volta efficace: il cambiamento di rotta, da una politica monetaria “accomodante” a una restrittiva, è stato annunciato, progressivamente, da alcune settimane da esponenti del suo Comitato esecutivo in interventi ufficiosi ed è stato, quindi, già preso in conto dai mercati. Se non interverranno altri elementi, non aspettiamoci un tonfo delle Borse il 7 o l’8 aprile alla lettura del comunicato della Bce.
L’argomento di fondo dei servizi tecnici della Bce è che il tasso d’aumento dei prezzi nell’eurozona supera quel 2% l’anno definito, negli statuti dell’istituto, come il livello di soglia oltre il quale occorre intervenire. A questo punto formale, ne aggiungono uno sostanziale che illustrano con dovizia di grafici relativi ai singoli indici (di andamento dei prezzi) e a ciascuno dei 17 Stati dell’area dell’euro. Se non si intervenisse oggi con un ritocco “leggero” – avvertono – si correrebbe il rischio di doverne porre in essere uno più pesante domani. Non solo, all’Eurotower di Francoforte si auspica che nel palazzone tardo-fascista di Constitution Avenue N.W. a Washington (dove ha sede la Federal Reserve) si prenda esempio dall’Europa.
È un auspicio destinato a cadere nel vuoto, perché, a differenza di quelli della Bce, gli statuti delle autorità monetarie federali Usa pongono come obiettivo della politica della moneta non solo la stabilità dei prezzi, ma anche l’occupazione dei fattori produttivi. Con un tasso di disoccupazione pari al 9% di coloro che vogliono e possono lavorare, Constitution Avenue non è certo pronta a seguire l’Eurotower. E dobbiamo ringraziare il Cielo che non lo farà. Rischiamo di farci male da soli e di farcene ancora di più se pure gli americani adottano una politica restrittiva.
Bradford Delong, ex-Vice Segretario al Tesoro Usa e ora professore di economia all’Università della California a Berkeley, ha prodotto in un saggio ancora a diffusione soltanto su supporto magnetico, alcune cifre da fare tremare sull’economia di quella chiamata un tempo la comunità economica atlantica. Rispetto al periodo precedente la recessione, abbiamo un calo della domanda di ben otto punti percentuali, tassi di disoccupazione che superano di almeno tre punti percentuali quelli generalmente considerati “sostenibili” e nessuna prova che il tasso d’inflazione di base – ossia al netto dei movimenti dei corsi dell’energia e dei prodotti agricoli – stia crescendo.
Gli Stati Uniti – non lo dice apertamente, ma lo fa capire – stanno trainando la carretta della comunità atlantica con un tasso annuo di aumento del Pil superiore al 3%, mentre l’eurozona è a rimorchio con incrementi del reddito nazionale che sfiorano l’1,5%. Se gli europei vogliono farsi del male, possono aggravare sia sé stessi, sia il resto dell’economia mondiale in una fase, come l’attuale, in cui la domanda è debole e la disoccupazione alta (due fenomeni destinati ad accentuarsi a ragione delle vicende del Nord Africa, del Medio Oriente e del Giappone).
DeLong ha ragione. Non tiene, però, conto di alcuni aspetti specifici dell’eurozona, in particolare del rischio d’insolvenza di alcuni Stati indebitatisi, per di più, soprattutto con banche di altri Stati dell’area, istituti che sarebbero i primi a essere colpiti da eventuale insolvenze sovrane.
Non credo che i rappresentanti del Governo italiano in seno al Consiglio Bce saranno in grado di incidere su una decisione che pare già assunta. Ciò dovrebbe, però, indurre a una politica di crescita più incisiva in materia di liberalizzazioni e privatizzazioni.