La percentuale del capitale azionario nelle società francesi quotate in Borsa controllato da gruppi internazionali supera il 45%. Manca un dato aggiornato per la Borsa italiana, ma è probabile che non si arrivi al 40%. L’economista Fabiano Schivardi, dopo aver analizzato dati omogenei sulle imprese manifatturiere con almeno dieci dipendenti, ha scoperto che la quota di aziende a controllo estero è pari al 10,1% in Francia contro il 4,1% in Italia. I recenti dati dell’Aifi, l’associazione italiana del private equity, sottolineano in maniera drammatica il calo di attrazione degli investimenti nel Bel Paese: solo il 2% dei capitali raccolti dai fondi italiani è arrivato nel 2010 dall’estero.
Insomma, i dati non confermano la sensazione, diffusa dal clamore delle ultime operazioni finanziare, di un “sacco” dell’economia italiana da parte degli investitori internazionali, francesi in testa. Tutt’altro. A giudicare dal trend in atto negli ultimi anni, sarebbe il caso di lanciare un grido d’allarme di segno opposto: l’Italia resta agli ultimi posti nelle classifiche internazionali sulla libertà economica, causa i numerosi handicap (infrastrutture, giustizia, burocrazia, ecc.) che intralciano il business.
Questi dati, almeno a prima vista, sembrano dare ragione ai critici delle norme antiscalata messe a punto dal ministro del’Economia, Giulio Tremonti. Il problema, afferma la Confindustria, non è di frenare l’interesse delle società straniere, bensì di garantire a quelle italiane eguale ingresso sui mercati altrui, a partire dalla Francia, dove esistono paletti severi a salvaguardia di ben undici settori strategici, che scendono a sette per membri dell’Ue. I problemi di fondo, semmai, sono altri: la crescita dimensionale delle imprese italiane, la loro patrimonializzazione, e così via. Guai, insomma, a cedere alla tentazione del protezionismo che, invece che proteggere le imprese sul cammino della crescita, altro non farebbe che favorire la “pigrizia” di capitani d’industria che già troppo spesso cercano riparo nelle aree dell’economia protetta dalle tariffe, invece che sfidare il libero mercato.
Si tratta di argomenti che meritano il massimo rispetto. Ma non danno una risposta esauriente a un problema che esiste. A mano a mano che rallenta la corsa agli investimenti in Italia, Paese che non promette tassi di crescita della domanda tali da giustificare grandi sforzi, cresce infatti l’attenzione per i nostri marchi, vuoi nell’agroalimentare, vuoi nel tessile-abbigliamento, ma anche nella meccanica. I Big dell’industria alimentare europea, tanto per fare un esempio, sono ben consapevoli del boom che incontra il gusto italiano a tavola nel mondo. E intendono cavalcare il trend fino in fondo, garantendo a molti prodotti made in Italy i necessari supporti di marketing, commercializzazione e ricerca necessari per avere il giusto spazio sugli scaffali dei supermarket o nei ristoranti in Usa o in Giappone.
Il problema è che, proseguendo questo trend, a trasferirsi oltre frontiera sia il vero valore aggiunto delle imprese. Non è a rischio, nel caso Parmalat, la sorte del latte delle mucche padane (già al centro da anni di annose polemiche e di ben altri problemi), bensì il controllo del marketing, della pubblicità, della ricerca e di tutto il vero valore “virtuale” che costituisce oggi la ricchezza vera di un’impresa. E che, tra l’altro, garantisce la presenza sul territorio dei posti di lavoro più qualificati e meglio pagati, con una ricaduta virtuosa per l’economia locale.
L’Italia, dunque, corre un doppio pericolo: da una parte la spoliazione della sua ricchezza “immateriale”, dall’altra la riduzione a officina “outsourcing”, cui affidare in appalto lavorazioni esterne, in linea di principio fungibili. Ovvero, l’Italia corre il rischio di diventare, all’interno della divisione internazionale del lavoro, un’economia terzista cui affidare lavorazioni specifiche che altri penseranno poi a valorizzare nel modo più adeguato sui mercati. Come capita, ad esempio, ai prodotti Gucci realizzati nei capannoni della periferia fiorentina piuttosto che cuciti nel napoletano, ma valorizzati negli showroom del mondo ricco dal team di Ppr.
Un conto, insomma, è aprire le porte dell’economia agli altri , cosa che spesso l’Italia non fa, per colpa dei suoi non pochi handicap strutturali. Altro è difendere il frutto dell’intelletto di questa e di altre generazioni. Cosa che la Francia, ma non solo, fa anche a costo di superare talvolta il confine del ridicolo (basti pensare al flop del furto fasullo dell’auto elettrica Renault a opera dei soliti cinesi), ma con indiscutibili risultati: nella farmaceutica, ad esempio, dove per respingere le avances dei tedeschi è stato in pratica imposto il matrimonio tra Sanofi e Aventis. Al contrario, l’Italia si è concentrata il più delle volte in una difesa miope dell’esistente, ovvero delle partite materiali meno pregiate o con minori prospettive, senza puntare alla difesa dei marchi vecchi e nuovi: di questo passo, non stupisce che le eccellenze italiane, quelle del quarto capitalismo, corrano il rischio di essere oggetto di un intenso shopping.
Da questo punto di vista, l’iniziativa di Tremonti ha l’indiscutibile merito di aver affrontato un problema già oggetto di leggi specifiche in tutti gli altri Paesi Ue (e non solo). Certo, come sempre capita in Italia, ci si è mossi solo sull’onda dell’emergenza, con una manovra relativamente goffa che ha avuto, come prima necessità, quella di guadagnare tempo. Ancor peggio, sta prendendo piede il malvezzo di agitare l’arma della Consob come la lancia di Don Chisciotte, quasi che il compito della Commissione fosse quello di difendere la bandiera e non gli interessi degli azionisti (più che felici per l’esito dell’operazione Bulgari). Sarebbe stato assai gradito, al proposito, leggere un intervento di Giuseppe Vegas a tutela degli interessi dei soci minori di Parmalat, che difficilmente rivedranno il prezzo pagato ai fondi che hanno venduto la loro quota a Lactalis. Ma, pur con tutti i limiti del caso, è stato riaffermato il principio sacrosanto della reciprocità, cosa che tornerà assai utile al momento di definire le partite energetiche con Parigi.
Ora, naturalmente, occorre fare di più. E meglio. Senza illudersi che le scorciatoie giuridiche possano servire a qualcosa, in assenza di una volontà precisa delle parti sociali, a partire dalle imprese. Non è certo colpa dei francesi se il capitalismo italiano, banche comprese, si è rivelato incapace a costruire una corazzata del lusso del calibro di Lvmh. Ci abbiamo provato, schierando Mediobanca e la famiglia Romiti ai vertici di Hdp: è stato un disastro.
Non è colpa dei francesi se Enrico Bondi si è rivelato un abile negoziatore nei confronti delle banche coinvolte nel crack, ma non ha mosso un solo dito nella direzione della crescita del gruppo via M&A, creando così i presupposti per una scalata altrui. Non è certo colpa della comunità finanziaria internazionale se il capitalismo nostrano, fitto di intrichi azionari, scatole cinesi e uso abnorme della leva per amplificare la portata del controllo si presenta come la vittima ideale per le scalate aggressive altrui, anche per aver introdotto, più per insipienza che per reale convinzione, la legge dell’Opa più permissiva in una Borsa dove, tra accordi taciti o espliciti, di contendibile c’è ben poco.
Infine, ben venga l’intervento di Tremonti se spingerà il gruppo Ferrero a uscire dal guscio. Ci aveva provato nell’85, ai tempi della contesa con Carlo De Benedetti per il controllo della Sme. Per tutta risposta, l’allora ministro delle Finanze, Bruno Visentini, inviò la Gdf negli uffici di Pino Torinese. Anche adesso si legge dell’intervento dell’Agenzia delle Entrate per “punire” i Bulgari per la vendita a Lvmh. Purtroppo, passano gli anni e gli uomini. Ma i sistemi più odiosi e illiberali restano di moda.