È poco elegante scrivere in prima persona. Tuttavia, me lo si consenta poiché chi mi conosce sa che sono notoriamente un melofilo dall’età di 12 anni, quando venni affascinato dal wagneriano “Vascello Fantasma” (allora lo si titolava così) accompagnando mia madre al Teatro dell’Opera (considerato un obbligo sociale). Diventai imperterrito e irrecuperabile quando, due anni dopo, venni alle mani con ragazzi della “reazione” alla prima romana di “Boulevard Solitude” di Hans Werner Henze. Da liceale, mettevo da parte l’argent de poche per andare, ogni due anni, alla biennale di musica contemporanea a Venezia. Da sempre le vacanze mie e della famiglia (imposte anche ai figli sino a quando non sono stati in grado di organizzarsi da soli) sono un vagare da festival a festival. Quindi, non posso non essere lieto che i sipari non calino, forse per sempre, sul teatro in musica “alto” italiano.



Al tempo stesso, però, non posso non essere perplesso per il modo in cui si pensa di avere risolto il problema. In primo luogo, le “imposte di scopo” vengono considerate analoghe alla pornografia da tutti coloro che studiano o insegnano scienza delle finanze. In Italia, l’imposta di scopo per eccellenza, il canone Rai, è il tributo più odiato e con il più alto tasso d’evasione (il 35%). Naturalmente, in condizioni estreme si è costretti a fare a esse ricorso, ma lo si fa in modo trasparente ed efficiente. Lo fece, proprio per la lirica, la popolazione di Vienna.



La delegazione americana del Piano Marshall (si era nella Vienna de “Il Terzo Uomo”, per intenderci) aveva bocciato l’idea di utilizzare fondi Usa per la ricostruzione dalla Staatsoper (prima della ricostruzione dei binari dei tram e delle fogne). Il governo della città varò un’imposta di scopo con l’impegno che il teatro sarebbe stato riaperto (come avvenne) con nove recite gratis delle nove opere più amate dai viennesi in cui maestranze tecniche e artistiche, solisti e quant’altro, avrebbero lavorato senza alcun compenso. Il teatro funzionò prima del tram, ma i viennesi erano consapevoli di pagare per qualcosa che amavano molto e a cui davano, in piena coscienza di causa, alta priorità.



Al contrario, per aumentare la dotazione del Fus si è fatto ricorso a un’imposta di scopo in maschera, che graverà su lavoratori (in gran misura con redditi molto inferiori di coloro che frequentano i teatri) e attizzerà il fuoco di associazione di consumatori, sindacati e Parlamento. È possibile che, a ragione del marchingegno, il decreto non venga convertito o che si finisca in annose vertenze in tribunali tributari. È in ogni caso una misura altamente regressiva: quando sala, palchi e platee di una fondazione lirica hanno il “tutto esaurito”, la sovvenzione pubblica media è 300 euro a spettatore pagante. C’è, quindi, un serio problema di equità nel porre questo onere a carico di chi, a basso reddito, utilizza l’auto per esigenze vitali come andare al lavoro o svolgere la propria attività.

Inoltre, sarebbe stato saggio agganciare i finanziamenti a una vera riforma delle fondazioni, un riequilibrio tra fondazioni e “teatri di tradizione” (i più innovativi degli ultimi 25 anni), l’avvio di un cartellone nazionale (per contenere sprechi e anche peggio) con regole ferree per coproduzioni, premialità e sanzioni, il rilancio della normativa sulle sponsorizzazioni preparata ma insabbiata nei meandri del Collegio Romano. La Commissione per la predisposizione dei regolamenti ex legge Bondi si e riunita una sola volta nell’autunno del 2010. Senza nuove regole e prassi, i teatri delle nostre fondazioni resteranno i più costosi e i più sovvenzionati al mondo anche in una fase come l’attuale, in cui migliaia di famiglie hanno difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena. Inevitabilmente, tra qualche anno ci sarà una nuova crisi.

Si sarebbe, poi, dovuto anche ripensare il numero delle fondazioni (in base a numero effettivo di alzate di sipario e tasso di occupazione dei teatri da parte di pubblico pagante). Perché in Italia ne abbiamo 14 (e una trentina di “teatri di tradizione”), mentre in Gran Bretagna ci sono solo un paio di teatri “nazionali” e in Francia poco più di una “mezza dozzina”? Perché le fondazioni assorbono la metà del Fus e i “teatri di tradizione” il 6% (il resto va a circa 650 soggetti più o meno a piaggio e senza alcuna valutazione di qualità, efficienza ed efficacia)?

Si sarebbe, poi, dovuta innescare la riforma di altri comparti, come i musei: noi abbiamo 450 musei “nazionali” rispetto ai 20 della Francia e alla dozzina della Gran Bretagna. Infine, si sarebbero dovute chiudere le 324 contabilità speciali fuori bilancio del Ministero, non per le voci sulla loro gestione (chi le ascolta finisce come Dagospia o come Giovanna d’Arco), ma perché rappresentano una vera anomalia nella finanza pubblica dei Paesi Ocse. La Banca Mondiale ne ha imposto la chiusura al Burundi. Tra breve, in base alla nuova legge sulla contabilità dello Stato, dovrebbero sparire pure da noi. Troppo tardi, visti i danni che hanno comportato a cultura e beni culturali.

Il problema, in sintesi, è stato tamponato con occhiali miopi. In attesa di guai peggiori.