In base alle nuove procedure per il coordinamento delle politiche economiche, entro il 15 aprile l’Italia (come il resto dell’Eurozona) dovrà presentare simultaneamente i programmi di stabilità e i programmi di riforme. È un’innovazione importante non solo al fine di promuovere la coerenza tra le leggi di bilancio e di riforma nell’intera Eurozona, ma anche e soprattutto per fare sì che crescita economica e stabilità finanziaria siano un effettivo binomio.
Al momento in cui viene scritta questa nota, la legge di stabilità è stata approvata (e anche aggiornata tramite il decreto chiamato “milleproroghe”) e il Piano Nazionale di Riforma (Pnr) approvato dal Consiglio dei Ministri del 5 novembre è in fase di aggiornamento da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Prima della finalizzazione, Governo e Parlamento avranno “osservazioni e proposte” dal Cnel (Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro).
Il Pnr del 5 novembre delineava riforme che avrebbero portato il tasso di aumento del Pil dal rasoterra degli ultimi tre lustri al 2% l’anno a partire dal 2013. In queste settimane, si sta congetturando una “frustata” di misure che dovrebbero portare il tasso di crescita al 3-4% l’anno dal 2013-2014.
Un esame del Pnr sarebbe prematuro: data la rapidità in cui stanno evolvendo avvenimenti politici di grande rilievo economico nel Bacino del Mediterraneo, sarà più opportuno farlo a caldo (quando se ne conosceranno i dettagli) sulla stampa quotidiana. Vale invece la pena chiedersi di quanto può crescere l’economia italiana, ossia quale è quello che gli economisti chiamano il “tasso potenziale di crescita” alla luce della dotazione di fattori produttivi e della loro produttività (due elementi noti o, quanto meno, facilmente stimabili).
Nel 2009 ci fu un dibattito su una stima della Commissione Europea, secondo cui tale tasso potenziale sarebbe attorno all’1,3% l’anno, pur sempre maggiore di un buon terzo dell’1% che ha contrassegnato gli ultimi tre lustri. Il dibattito fu prevalentemente tra economisti; pochi politici intervennero (e non molto volentieri). Finì nello spazio di alcune settimane, perché stime della Banca centrale europea (Bce) e del National bureau of economic research americano (Nber), pur seguendo metodi differenti sia tra loro, sia rispetto alle procedure adottate dalla Commissione, giungevano a conclusioni simili: quelle più ottimistiche ponevano il tasso potenziale di crescita all’1,7% l’anno. Alla luce di queste analisi, pure il 2% del Pnr dell’autunno scorso sembrerebbe ambizioso.
Quale il vincolo principale? L’invecchiamento della popolazione – risultato in parte dell’avere trascurato per decenni la politica per la famiglia – ha reso meno produttivo la nostra risorsa più importante, il “capitale umano”. Due terzi del Paese – lo documentano diecine di studi – sono scarsi in “capitale sociale”, la capacità di mettere in rete il “capitale umano” dei singoli e di fare sistema; è il frutto di un secolare mal inteso individualismo che privilegia l’opportunismo rispetto alla cooperazione.
Su questi elementi si innescano i freni di un debito pubblico che al 120% del Pil supera quel 90% oltre il quale, ci dicono analisi comparate, diventa un macigno sulla crescita potenziale ancora prima di quella effettiva.
La strada è stretta e lunga: le politiche per la famiglia richiedono due-tre decenni per incidere su tendenze demografiche; la strategie cooperative evolvono anche esse nel tempo medio e lungo; nella vasta gamma di proposte per abbattere nell’arco di pochi anni il fardello del debito nessuna appare particolarmente convincente.
C’è una misura che potrebbe dare un impulso: una forte liberalizzazione a livello locale, cominciando dal “capitalismo municipale”. Necessita, però, di modifiche alla Costituzione di senso inverso al federalismo.