A prima vista, le reazioni non potrebbero essere più diverse. Di fronte alla crescita dell’inflazione, infatti, il presidente della Federal Reserve ha reagito parlando, per la prima volta, di un possibile “quantitative easing 3” in grado di prendere il posto del QE2, la cui scadenza è prevista per la fine di giugno. La ripresa Usa, a detta della Federal Reserve, ha ancora necessità di un abbondante sostegno da parte della politica monetaria, nonostante la pioggia di dollari in giro per il pianeta abbia avuto grosse responsabilità nella bolla delle commodities e del petrolio.



Un’emergenza, quest’ultima, che spaventa l’America meno del previsto: grazie alle nuove forme di estrazione dell’energia (“shale gas”, sabbie bituminose, ecc.) la produzione di idrocarburi negli States è tornata a livelli record, nonostante la chiusura dei pozzi del Golfo del Messico dopo l’incidente di Exxon. Continua, perciò, la politica del denaro a costo quasi zero, per la gioia degli operatori finanziari che reinvestono i quattrini nei Paesi emergenti, Brasile in testa, dove l’inflazione si accompagna all’aumento di valore della moneta.



In Europa, al contrario, l’impennata dei prezzi ha provocato la reazione “tradizionale” della Bce. Di fronte alla prospettiva che venga stabilmente varcata la soglia del 2%, cioè la soglia di inflazione che si è data la banca centrale, lo stesso Jean Claude Trichet ha parlato in maniera esplicita di un possibile ritocco dei tassi per il 7 aprile. Lo stesso presidente, quasi a metter le mani avanti contro le critiche, ha subito precisato che “il petrolio non è l’unica ragione” che rischia di riaccendere i prezzi.

Eppure, non è facile cogliere queste ragioni: la ripresa, nell’eurozona, resta asfittica; il livello dei salari non cresce, né si registra certo un afflusso di nuova domanda di credito per investimenti. Infine, il livello della produzione resta al di sotto della capacità produttiva, nonostante il contributo determinante della domanda da Oriente. Insomma, se si guarda alla media dei Paesi Ue è difficile individuare le ragioni per un rialzo che, quantomeno, rischia di essere prematuro. Certo, il quadro cambia se si osserva da vicino la macchina economica tedesca, che marcia a pieno regime. Ma non sarà un rialzo di un quarto di punto dei tassi a frenare la corsa dell’export della Germania Federale.



Perché, allora, la Bce ha scelto l’aumento dei tassi? Una prima spiegazione sta nella delicata fase politica della vita comunitaria, alla vigilia del vertice che dovrà promuovere, modificare o respingere in toto le proposte della Merkel e di Sarkozy sul patto di stabilità. È facile che, alla fine, si troverà un accordo purché frau Merkel esca dal vertice con buoni argomenti da presentare ai propri elettori: un euro stabile, in via di rivalutazione, è sempre un bel biglietto da visita per un’opinione pubblica che si sente ancora orfana del marco. Ma è anche un ingrediente essenziale in un momento non meno delicato per il sistema bancario di Eurolandia.

 

Proprio oggi, forse non a caso, prende ufficialmente il via l’operazione “stress test atto II”, ovvero gli esami che il sistema bancario del vecchio Continente dovrà affrontare nei prossimi mesi. È una sorta di esame di riparazione per il sistema: nella tornata del 2010, che aveva interessato 91 istituti, c’erano stati solo sette bocciati, mentre tra i promossi figuravano le banche irlandesi destinate al profondo rosso solo poche settimane dopo i risultati. Insomma, un flop che ha intaccato la reputazione del credito dell’area euro, al contrario di quanto era successo negli Usa, dove l’esame ben più severo a cui sono state sottoposte le banche ha avuto un ruolo determinante nella ripresa di Wall Street.

 

Stavolta, insomma, è proibito sbagliare. Come ha voluto sottolineare lo stesso governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, rilevando che stavolta gli stress test dovranno possedere quattro requisiti: severità degli scenari ipotizzati; vaglio rigoroso dei risultati con una metodologia comune; piena trasparenza; pronta individuazione delle azioni di correzione. È vitale che non si facciano sconti, ovvero che le autorità di vigilanza nazionali concorrano ad applicare regole e prassi uniformi e severe. Sotto la supervisione della stessa Bce che ha già fatto sapere che un eventuale aumento del costo del denaro non comprometterà (anzi) le eventuali operazioni di intervento che possano essere richieste da un Paese: non è passata invano la lezione irlandese, quando la clemenza nei confronti dei principali istituti (pesantemente indebitati con le banche tedesche e francesi) ha rischiato di trascinare l’euro in una crisi fatale, senza ritorno.

Sia per Draghi che per Trichet, insomma, la stabilità del sistema finanziario continua a essere l’emergenza numero uno. Non che i banchieri centrali siano insensibili alla necessità di riavviare un ciclo di crescita dell’economia, soprattutto in Italia. Ma, come ha sostenuto il governatore nel suo intervento al convegno Aiaf/Assiom Forex di Verona, le cause del mancato decollo prescindono largamente dalla politica monetaria. O dall’indulgenza nei confronti delle banche. Anche di quelle italiane che hanno retto bene alla prima onda d’urto della crisi, ma non navigano certo in acque brillanti dopo quattro anni di grave crisi per le imprese loro clienti. Per questo, Draghi ha chiesto alle banche di pensare al più presto a operazioni sul capitale, ancor prima che vengano resi pubblici i voti degli stress test (che, evidentemente, il governatore giudica tutt’altro che scontati).

 

Certo, non sarà facile convincere gli azionisti delle grandi banche italiane ad allargare i cordoni della borsa, per giunta di fronte alla prospettiva di anni magri in tema di dividendi. Né si vedono grandi investitori sull’orizzonte (anzi, si prospetta il caso Libia/Unicredit). E non è un mistero che alcuni banchieri hanno opinioni diverse in merito, a partire dai vertici di Banca Intesa. Il Financial Times ha rivelato addirittura presunte pressioni delle banche verso via Nazionale perché la Banca centrale, partecipata dai singoli istituti, metta a disposizione le riserve auree per favorire la ricapitalizzazione delle banche.

 

Per carità, la proposta è troppo insensata per essere vera, non fosse per il fatto che le riserve della Banca sono a garanzia della presenza italiana nella Bce. Ma anche questo è un sintomo di una situazione di disagio del sistema, che pure incontra qualche difficoltà nel collocare le proprie emissioni obbligazionarie. E che ne incontrerà ancora di più in caso di aumento dei tassi.