E siamo a trenta. La Fiat, guidata da Sergio Marchionne, è salita al 30% di Chrysler. Questo è avvenuto senza l’esborso diretto di un solo euro e grazie agli accordi con il Governo di Barack Obama di quasi due anni or sono. Il salvataggio della casa automobilistica di Detroit, pagata dai contribuenti americani, prevedeva infatti che Fiat sarebbe potuta salire al 51% di Chrysler nel corso degli anni successivi. Il primo 20% è stato dato dal Governo americano in cambio di uno scambio tecnologico, mentre le due quote successive del 5% ciascuna erano legate al raggiungimento di due obiettivi considerati strategici: la produzione di un motore “ecologico” negli Stati Uniti e la distribuzione del marchio americano nel Sud America nel 90% dei concessionari Fiat, con un obiettivo di vendita superiore a un miliardo e mezzo di dollari nell’area di libero scambio Nafta.
Raggiunti questi obiettivi, Fiat ha la possibilità di arrivare al 35% con la sola introduzione di un’autovettura che sia in grado di percorrere almeno 40 miglia con un gallone: la Cinquecento. Le condizioni per crescere dallo 0 al 35% nell’azionariato della casa automobilistica americana non sono impossibili, mentre risulta più difficile l’ultimo passo da compiere. Il restante 16%, infatti, quello necessario per avere il completo controllo di Chrysler, prevede un esborso diretto da parte dell’azienda guidata da Sergio Marchionne e il rimborso del debito al Governo americano e a quello canadese.
L’indebitamento di Fiat potrebbe crescere molto al di sopra del livello dei concorrenti, appesantendo di fatto l’azienda torinese in un momento nel quale le difficoltà di mercato sono molto importanti. In Europa infatti, Fiat continua a perdere quote di mercato ed è ormai stabile sotto l’8%. In America, pur essendo il mercato in forte crescita, gli obiettivi annuali difficilmente verranno raggiunti.
I problemi di mercato continuano anche nel resto del mondo. Dopo il mancato accordo in Russia, dove Sollers ha abbandonato la joint venture a favore di Ford, Fiat continua a vedere una presenza quasi nulla nei due mercati del futuro: Cina e India. Nel subcontinente indiano l’accordo con Tata non decolla, mentre nel Paese del Dragone la casa italiana è ormai distanziata dai colossi Toyota e Volkswagen. L’unico mercato in via di sviluppo dove Fiat continua a comportarsi bene è quello brasiliano, dove si gioca la leadership con la stessa Volkswagen. Il passo ulteriore dell’azienda guidata da Sergio Marchionne verso la fusione con Chrylser rimane comunque positivo. Una Fiat “sola” non potrebbe sopravvivere in un mercato sempre più globalizzato.
Sorprendono invece le dichiarazioni della Fiom, che, tramite il suo segretario generale Maurizio Landini, ha espresso la paura che la casa automobilistica diventi americana. Quel che non capisce una parte del sindacato italiano è che poco importa dove sia posizionata un’azienda, ma è essenziale che si continui a produrre in un determinato Paese. La Fiat “italiana” ha visto la produzione di autoveicoli dimezzarsi in un decennio, arrivando a dei livelli inferiori a Belgio e Repubblica Ceca. Avere “testa e corpo” italiani non risolve i problemi di un’azienda, ne favorisce gli investimenti nel nostro Paese.
La Fiom farebbe bene a guardare all’esperienze estere. In Gran Bretagna, dove non esiste più un marchio britannico, la produzione è superiore tre volte a quella italiana, grazie all’arrivo di case automobilistiche straniere. Lo stesso succede in Spagna, dove Seat è ormai un gruppo del marchio Volkswagen e dove grandi gruppi stranieri hanno investito per produrre. Il rischio maggiore non è dunque quello che Fiat scappi dall’Italia, quanto che la casa torinese sia troppo poco globalizzata per resistere alla concorrenza globale.
Essere il quarto o quinto operatore in Europa o nel Nord America non è abbastanza per competere. È necessario che l’azienda faccia una “campagna d’Oriente”, con un’entrata importante nei mercati del futuro quali Cina, India e Russia. L’errore più grande commesso dall’Italia è quello di essere stato Fiat-dipendente per troppi anni, non attraendo capitali dall’estero. Fare regole che impediscano l’arrivo di stranieri peggiorerà ancora di più le cose (si veda la “guerra del latte”).
L’errore più grande della Fiat è quello di essere stata troppo “italiana” per molti anni. Il merito indubbio di Marchionne è quello di aver cambiato la mentalità dell’azienda, cercando di renderla globalizzata. La sfida potrebbe non essere vinta, ma perlomeno Marchionne combatte.