Dunque ci sono venti miliardi di euro pronti, nei forzieri della Cassa depositi e prestiti, per essere investiti “in società di rilevante interesse nazionale, a condizione che possiedano i requisiti che saranno definiti con decreto del ministro dell’Economia a norma del predetto decreto legge, e che siano caratterizzate da una stabile situazione di equilibrio finanziario, patrimoniale ed economico, e da adeguate prospettive di redditività”.
Un po’ poco, bisogna dire. Cioè: rispetto a chi paventa la riedizione del vecchio Iri (l’Istituto per la ricostruzione industriale, voluto nel ‘33 da Mussolini per rifinanziare le tre principali banche del Paese, Banca commerciale, Credito italiano e Banco di Roma, evitandone il fallimento) qui c’è di chiaro la norma che proibisce al fondo di investire in aziende decotte. Ma allora, qual è il criterio – o i criteri – che guiderà il Governo nel definire “di rilevante interesse nazionale” le aziende nelle quali dirigere il flusso dell’investimento? E quali “requisiti” verranno identificati dal decreto?
L’iniziativa nasce, e nasce a spron battuto, per affrontare l’emergenza Parmalat. Ebbene: una buona metà del fatturato Parmalat viene realizzato dalle imprese che il colosso di Parma controlla in America e in Australia. La metà del latte che la Parmalat trasforma invece negli stabilimenti italiani è importato dalla Germania. Ma allora, l’impatto “sistemico” di un’eventuale acquisizione della Parmalat da parte di un gruppo straniero, in questo caso la francese Lactalis, è da considerarsi incisivo sulla nostra economia per quanto riguarda tutta la multinazionale Parmalat o soltanto la parte, non maggioritaria, del suo perimetro produttivo che s’ingrana con la filiera del latte italiano, cioè con quelle decine di migliaia di piccoli e medi allevatori che producono in Italia il latte destinato a essere trasformato negli stabilimenti italiani della Parmalat?
Questa è una domanda tipica delle tante cui dovrà rispondere la nuova iniziativa del Governo, intermediata dalla Cassa depositi e prestiti – che tra l’altro, con i capitali stanziati, promuoverà la costituzione di un fondo aperto anche a soci privati e stranieri. I soldi pubblici sono un bene prezioso e una risorsa scarsa. Il loro investimento va quindi amministrato con criteri attenti, pignoli: ma, soprattutto, scevri sia dall’inquinamento che interessi di parte hanno sempre portato, storicamente, nelle aziende pubbliche italiane – dal finanziamento illecito dei partiti ai banalissimi intrallazzi privati – sia dalle distorsioni ideologiche care a questo o a quell’elettorato, a questa o a quella lobby.
E quindi, la natura “strategica” di un’azienda meritevole dell’investimento dovrebbe derivare da indiscutibili caratteristiche di utilità e di interesse collettivo che vadano oltre la mera dimensione occupazionale – ci sono in Italia fior di datori di lavoro industriali di nazionalità straniera, come l’Electrolux o la General Motors, che hanno assunto negli anni più di tanti “paron” italiani – e investano appunto i rapporti di un’impresa col territorio e col sociale.
Se qualcuno vuol valutare questa rilevanza sociale e territoriale delle imprese che andrebbero considerate “acquisibili” dal fondo come una sorta di sussidiarietà di esse al sistema Paese, ben venga: può essere una formula chiarificatrice. Ma in tal senso, ad esempio, può anche valere più l’indotto di un’impresa che non i suoi organici diretti a farla definire strategica; vale più l’impatto ambientale che gli utili; il numero dei suoi brevetti che la celebrità del suo marchio. La Bulgheroni non è meno italiana, territorialmente, da quando è stata acquisita dalla svizzera Lindt, e Ferrero non è meno straniera, in forza delle sue prevalenti produzioni all’estero, per il fatto di aver conservato ad Alba il suo quartier generale.
E infine: è fin troppo chiaro, ahimè, che il capitalismo italiano è asfittico e non ha molta voglia di fare, che è un capitalismo senza capitali, che non vede tra le sue fila molti campioni nazionali interessati a crescere. Ma è chiaro anche che se un’azienda è “finanziariamente in equilibrio” qualche investitore italiano privato disposto a comprarsela potrebbe anche trovarlo. Nel caso di Parmalat, s’è visto, non c’è: e allora ben vengano “i nostri” della Cassa depositi e prestiti. Ma se ci fosse, sarebbe sano che non trovasse nella Cassa un concorrente, ma al massimo un socio.
Già, ma qui sorge un altro problema: e se invece, rincuorati dalla presenza coadiuvante della Cassa, i pretendenti a un’azienda strategica fossero due, rivali tra loro, come si regolerebbe la Cassa per scegliere quale dei due appoggiare? Con criteri meramente economici – bella sfida, come identificarli? – o per simpatie, amicizie, collateralismi politici?
Insomma, il rischio concreto è che il nuovo strumento di cui lo Stato si doterà – per armarsi, simmetricamente, di munizioni uguali e contrarie a quelle francesi – si riveli potente ma pericoloso per i suoi stessi progettisti. Da maneggiare con estrema cura. Soprattutto se a ispirarne l’uso saranno criteri troppo discrezionali e generici, e non filtrati da una griglia essenziale di priorità politiche e sociali nitide e vincolanti.