C’è poco da scherzare, puntualizza uno stizzito Luca di Montezemolo in difesa dell’erede Emma Marcegaglia, finalmente in sintonia con l’ex presidente di Confindustria. C’è poco da scherzare, caro Tremonti, sulla solitudine degli imprenditori. Soprattutto dopo che tu stesso hai confermato che l’Italia non cresce.
Qui non si tratta di eliminare, come tu vai dicendo, fastidiosi “colli di bottiglia” che rallentano la marcia del sistema. Semmai, sarebbe il caso di levare i tanti tappi che la politica impone al Paese: il blackout all’attività legislativa, ormai concentrata da mesi dal braccio di ferro sulla giustizia; la moltiplicazione degli incarichi pubblici, a ogni livello, che suonano a insulto per le difficoltà del Paese; i continui rinvii della riforma fiscale, più volte promessa, mai messa in cantiere.
Critiche pretestuose, che nascondono le prove tecniche di un partito degli industriali già rivolto al dopo Berlusconi? O segnali delle frustrazioni di un Paese che si sente abbandonato a se stesso? In realtà, Giulio Tremonti si presenta all’appuntamento con il Documento di economia e finanza con alcuni bei voti in pagella.
Tanto per cominciare, non va sottovalutato il fatto che la spesa pubblica è scesa sotto il 5% del Pil, a testimonianza che la crescita, pur blanda, non è drogata” da un supplemento di sostegni dal fronte della pubblica amministrazione, come è avvenuto in buona parte d’Europa. Certo, la virtù del Tesoro italiano trova spiegazione nello stato di indigenza delle casse pubbliche, che hanno reso necessaria la temperanza nella spesa e un maggior rigore sul fronte dell’evasione. Ma un anno fa, quando la diga dei debiti sovrani cominciava a scricchiolare dalle parti di Atene, la finanza pubblica e privata italiana ha rischiato grosso: non erano in pochi dalle parti della City a dare per scontato che, complice la bassa produttività dell’economia e lo stock di debito accumulato, il rischio italiano avrebbe raggiunto picchi elevati, con effetti devastanti per il fabbisogno e per la salute delle banche italiane.
Al contrario, la barca ha tenuto. Grazie ai risparmi delle famiglie, che hanno fatto fronte alle scelte del welfare senza intaccare il patrimonio accumulato. Ma anche a una gestione accorta del debito pubblico. E tutto sommato, il sistema ha in sé i capitali e la credibilità necessaria per assicurare il rafforzamento patrimoniale degli istituti di credito richiesto da Basilea 3. Non è poca cosa, se si pensa che Madrid, per evitare il collasso delle banche, dovrà fare massicciamente appello ai quattrini di Pechino: 13 miliardi di euro sui 15 necessari per rafforzare il sistema. Un’ipoteca che peserà sulle scelte di politica economica a lungo.
Per carità, si poteva e si doveva fare di più. Soprattutto sul fronte della riforma fiscale. In questi anni la Germania, ad esempio, ha garantito miglior competitività alleggerendo le aliquote sui redditi di imprese ritoccando al rialzo quelle sull’Iva. In questo modo si è rafforzato l’export mentre l’aumento dei beni ha colpito le importazioni.
Qualcosa del genere va fatto anche da noi. Anzi, non si capisce perché non sia già stato fatto. A meno di non considerare il fatto che l’Iva è l’imposta più evasa in questo Paese cuccagna per gli evasori. Il fiscalista Tremonti, insomma, non se l’è sentita di dichiarare una guerra già persa, senza otre combattere con armi adeguate, dalla fiscalità di vantaggio a norme che, come è accaduto per la nuova tassazione sui fitti, possano mettere finalmente in conflitto gli interessi di chi paga e di incassa, unico modo per evitare l’evasione dilagante e diffusa a ogni livello.
Infine, non è poi così vero che in Italia non si faccia politica economica. A giudicare dalle manovre su Parmalat, per la verità, sorge il sospetto che se ne faccia fin troppa e in direzioni sbagliate. Senza tener nel debito conto le richieste di quel popolo di produttori che, dalla Brianza dei mobili agli elettrodomestici di Treviso fino alle capitali del tessile-abbigliamento, Biella e Prato, hanno reagito alla grande e in questi mesi stanno raccogliendo ordini in tutto il mondo.
Basti, al proposito, un esempio: non si trovano i dieci milioni necessari per finanziare il progetto Navaltex, programma di ricerca sui nuovi materiali per la nautica che coinvolge il distretto di Biella e quello della cantieristica. Casi del genere se ne trovano a centinaia scorrendo le pagine dei giornali. A dimostrazione che l’Italia resta un Paese vivo, più attrezzato di altri ad affrontare la competizione internazionale. Ma incapace di comunicare sia a se stesso che agli altri i suoi innegabili punti di forza.
Un Paese che non cresce a sufficienza perché, come dice il governatore Mario Draghi, per coniugare risanamento finanziario e crescita sarebbe necessario un aumento del Pil nell’ordine del 2% annuo, quasi doppio rispetto alle previsioni governative. Ma che, per raggiungere questo risultato, deve rimettere in moto lo sviluppo del Sud, puntando su ricerca e innovazione, possibili grazie alla manodopera intellettuale del Mezzogiorno. Un Paese dove si investe poco in R&S ma più per le dimensioni troppo ridotte delle imprese che per l’assenza della mano pubblica, spesso l’unica a sostenere il settore.
Un Paese, infine, dove troppo spesso si tifa contro e si è intolleranti alle critiche, con il risultato che gli imprenditori, da cui dipende il controllo dei grandi giornali, hanno spesso imposto un atteggiamento troppo benevolo sulle proprie imprese. Un grosso errore, come continua a ripetere il professor Fulvio Coltorti, numero uno dell’Ufficio studi di Mediobanca: senza il pungolo di una stampa libera, le aziende di casa nostra si sono illuse di esser più forti e capaci di quel che non erano.