Giulio Tremonti ha detto “qualcosa di sinistra” quando ha – un po’ acidamente, come al suo solito – sottolineato che se in Italia hanno trovato e conservano un posto di lavoro ben quattro milioni di immigrati, circa il 10% della popolazione attiva, è segno che i nostri disoccupati non sono disoccupati “veri”, ma è gente che non vuol più fare i lavori che oggi soltanto gli immigrati accettano di fare: perché molto disagiati, mal pagati, troppo usuranti o semplicemente nauseanti. Basta fare un giro nelle fonderie del bresciano, nelle industrie della macellazione della bassa, nei salumifici del parmense o nelle tintorie industriali del casentino per accorgersi che a quelle linee di montaggio carnagioni bianche non se ne vedono: sono tutti neri oppure orientali.
Non c’è però, beninteso, né da meravigliarsi, né da scandalizzarsi. Il dramma di questa nostra epoca, bombardata dall’info-snacking di internet, dei telefonini e della tv sincopata, è che non coltiva più alcuna memoria storica. Ma sulla parete di casa mia ho voluto inchiodare la foto del piroscafo che nel 1914 portò lo zio di mio padre Leopoldo a Ellis Island, New York, per una emigrazione vincente che lo vide ricomparire in Italia soltanto quarant’anni più tardi, con poche frasi di lingua madre ancora veloci sulle labbra, molti dollari in tasca e la soddisfazione di chi ce l’aveva fatta. Sobbarcandosi, certo, a tutti i lavori più gravosi che – in quella fucina di crescita che erano stati gli Usa dagli anni Dieci in poi – i giovani americani iniziavano a non voler più fare: muratori, saldatori, tornitori, spazzini, ciabattini, killer della mafia (già, anche la manovalanza malavitosa era densa di effettivi italo-americani, e non solo la manovalanza, ma anche le alte sfere).
La storia si ripete, e l’emigrazione è stata da sempre un poderoso attore di promozione umana ed eguaglianza meritocratica. Ecco perché comprendere e rispettare la funzione economica dell’immigrazione è “di sinistra”, se lo è ciò che agevola l’individuo nel suo diritto-dovere di perseguire la propria felicità, il proprio riscatto, la propria promozione sociale.
Certo, resta il problema di tutti i nostri giovani che non vogliono più fare quei mestieri gettonati dagli immigrati, ma neanche riescono più a trovare i mestiere che amerebbero fare. Ed è su questa cerniera critica – una guerra fra poveri, da una parte i migranti disposti a tutto e dall’altra i figli del benessere diventati schifiltosi – che la sinistra di tutto l’Occidente è stata clamorosamente latitante. Non ha capito né il valore socialmente rivoluzionario della globalizzazione, né il contenuto conservatore del movimento no-global, che ha in parte cavalcato speculativamente e in parte osservato inebetita.
La globalizzazione è stata quel fenomeno che ha permesso agli operai cinesi di accedere, dopo decenni di schiavitù para-feudale, a una prima embrionale fase di contrattazione sindacale; e ai braccianti africani, o alle badanti slave, di vedersi per la prima volta riconoscere in alcuni Paesi di approdo, qualche abbozzo di diritti civili. Poca roba, certo, ma pur sempre un inizio: come per gli italiani negli anni Dieci e Venti in America, che approdavano agli scantinati di Brooklyn come a una terra promessa, visto che almeno lì non trovavano soltanto topi ma anche una lampadina elettrica e, a volte, l’acqua corrente, abituati com’erano invece a dormire nei fienili del nostro Sud.
Cosa avrebbe dovuto e potuto fare la sinistra, e non ha fatto né tentato: avrebbe potuto dosare la globalizzazione nei suoi effetti sociali, cercando di gestire – dov’era al Governo – questa permeabilità completa di livelli di vita tra Paesi ricchi e Paesi poveri che ha scatenato la guerra sociale in corso. Dosando l’apertura dei mercati in funzione dell’aumento dei costi e dei diritti civili nei Paesi di nuova industrializzazione: per evitare, ad esempio, che in Cina il lavoro costasse anche trenta volte meno che in Europa o negli Usa. Avrebbe potuto e dovuto non certo eliminare, ma attenuare e graduare nel tempo gli effetti spontanei della globalizzazione. Ma non l’ha capita o forse l’ha capita e non ha saputo gestirla. Mancando a un altro appuntamento con la storia. Uno in più.
Oggi non c’è più niente da fare: la globalizzazione è tra noi, è quei quattro milioni di lavoratori immigrati regolari che hanno tolto il lavoro ad altrettanti giovani italiani, oggi più emarginati di loro. È tra noi, nei barconi dei migranti che attraccano a Lampedusa. È tra noi, nel far defluire dosi crescenti del nostro tenore di vita sperperante verso i consumi degli ex-poveri. Tutto questo è molto di sinistra. Ma è poco elettoralmente favorevole alla sinistra occidentale, tutta presa a difendere ancora i diritti ormai indifendibili delle categorie ultraprotette dal sindacato post-colonialista dei nostri sistemi.