Il nuovo mantra del mondo economico-finanziario, soprattutto a livello politico e di regolatori, è il pericolo rappresentato dall’inflazione. In America, in Cina, nell’Europa del debito: dove prima era la recessione, ora è l’inflazione a mettere paura. Ne sono pieni i giornali, i siti, i blog, le dotte disquisizioni alla Bce come a Bretton Woods.



Ma che cosa è l’inflazione? L’aumento dei prezzi, direte voi. Ecco invece la definizione tramandataci da Ludwig Von Mises: «Inflazione significa aumento della quantità di denaro e banconote in circolazione e della quantità di depositi bancari soggetti a controllo». Insomma, perché ci sia inflazione non basta che il denaro venga artificialmente creato come accade, è necessario che il denaro circoli: non vi ricorda la Fed e i suoi due cicli di quantitative easing?



Von Mises, poi, ci ricorda che l’inflazione dipende anche dall’aumento o diminuzione di tutti i depositi bancari soggetti a controllo, ovvero della quantità di capitale di vigilanza in possesso delle banche su cui le stesse possono costruire la riserva frazionaria per mettere in circolazione altro denaro. Ecco la base del primo cortocircuito in atto: una banca può prestare denaro creandolo letteralmente dal nulla, a patto che venga mantenuta una certa proporzione con il denaro depositato e il patrimonio della banca stessa. Il denaro, insomma, genera altro denaro come un ciclostile!

A conferma di questa logica, esiste una correlazione inquietante fra gli acquisti di T-Bonds (le obbligazioni del Tesoro Usa) da parte della Fed e l’indice Crb che misura i prezzi delle materie prime, visto che dati alla mano è acclarato che più la Fed stampa dollari e li inietta a forza nel mercato (nemmeno le oche per il foie gras vengono ingozzate così), più cresce il prezzo delle materie prime.



Altro che speculatori e hedge funds, è la Fed a creare le condizioni per commodities alle stelle come in questo momento: se mi offri denaro a costo zero e sono un investitore: cosa faccio? Lo metto sul conto corrente? Compro un bilocale a Tribeca? No, mi getto sul mercato. E come? Prima un dato di roboante discrepanza: negli ultimi due anni i prezzi delle commodities sono saliti in media di quasi l’85%, mentre l’inflazione Usa, intesa come mero aumento dei prezzi, è cresciuta per i cittadini che fanno acquisti solo del 6,3%.

Insomma, la quantità di moneta in circolazione per beni e servizi che i cittadini consumano è aumentata in maniera molto minore rispetto a quella che circola per comprare materie prime e in particolare per l’acquisto di futures su materie prime. Questo per il semplice fatto che a beneficiare delle azioni della Fed non sono i cittadini, ma le grandi banche che usano il denaro artificiale di Stato per rimpinzarsi di derivati e prodotti finanziari, facendo artificialmente salire i prezzi delle materie prime, ma anche i listini azionari. Ecco spiegato l’inghippo del rally infinito anche in tempo di crisi. E di questo parliamo oggi, cominciando dalla definizione di un termine che fareste meglio a stamparvi bene nel cervello: margin debt.

Cosa sia è presto detto. Il margin debt è l’ammontare di denaro preso in prestito dagli operatori di mercato presso banche e brokers per acquistare attività finanziarie, in particolar modo azioni. Il collaterale a garanzia del prestito è costituito dalle medesime attività finanziarie acquistate con il prestito contratto, sul quale ovviamente grava un tasso d’interesse. Sempre grazie alla Fed e alle sue politiche di quantitative easing è stata messa a disposizione del mercato un’enorme messe di liquidità a costo praticamente zero, incentivando negli ultimi mesi la pratica dell’acquisto di azioni a margine.

L’esposizione al margin debt è aumentata da 173,3 miliardi di dollari (picco minimo del febbraio 2009) a 310,27 miliardi dello scorso gennaio: certo, siamo ancora distanti dai 381,3 miliardi di dollari del luglio 2007 (massimo di tutti i tempi), ma questo non deve farci dormire sonni tranquilli. Anzi. Anche perché il meccanismo è tanto semplice quanto diabolico. L’aumento del prezzo delle azioni fa sì che aumenti il valore del margine a garanzia e questo permette di prendere a prestito ulteriori somme di denaro per acquistare altri titoli, provocando nuovi aumenti artificiali e distorsivi nei prezzi dell’equity: insomma, quando leggete di rally borsistici occorre sempre guardare bene e chiedersi a cosa siano dovuti, visto che un mercato che vede il Dow Jones salire dell’1% e contemporaneamente l’oro apprezzarsi dell’1,5% a cifre record è certamente drogato.

Ma il meccanismo funziona anche al contrario: nel momento in cui i corsi azionari scendono, il valore del margine a garanzia si contrae e di conseguenza gli operatori sono costretti a vendere per ricostituire il rapporto iniziale: ribasso crea ribasso e i prezzi azionari vanno giù. E come siamo messi in questo momento, dove la criticità globale dovrebbe imporre cautela verso certi giochini creativi? La Borsa di New York ogni mese pubblica un report in cui comunica quanto sia il margin debt totale costituto sulle azioni quotate al Nyse, ovvero quanto denaro è stato dato a prestito da tutte le istituzioni finanziarie per acquistare titoli avendo messo come garanzia altri titoli azionari, oltre al dato riguardo il livello di capitale libero da margini in miliardi di dollari. Ora date una bella occhiata a questo grafico pubblicato da ZeroHedge.

 

 

Le barre in rosso rappresentano la quantità in miliardi di dollari di denaro prestato dalle istituzioni finanziarie per comprare titoli sul Nyse usando come garanzia gli stessi titoli azionari, mentre il grafico in nero rappresenta la quantità di capitali liberi da vincolo. Il margin debt a marzo 2011 ha fatto segnare un nuovo record a tre anni, è il più alto da aprile 2008, ma soprattutto la quantità di capitali liberi da vincolo ha raggiunto un valore negativo che è vicino ai massimi di sempre (75,2 miliardi di dollari contro il record storico di 79 miliardi). In altre parole, il grado di leva finanziaria costituita sui titoli alla borsa di New York è vicina ai record storici, in area agosto 2007 (e questo già dovrebbe bastare a darci i brividi).

Insomma, la crisi non ha insegnato proprio nulla. Anzi, pur di rifarsi da un biennio di vacche magre, a New York ci si comporta come bambini in un negozio di dolci: ci si rimpinza fino a stare male. Se dovesse concretizzarsi il fattore scatenante di un sell-off (difficile dire cosa visto che, in effetti, negli ultimi tre anni ne abbiamo già viste e passate di cotte e di crude), il classico “cigno nero” che la finanza è sempre in grado di far apparire, si genererebbe un effetto domino al ribasso causato dalla corsa alle vendite di titoli garantiti con altri titoli: insomma, un bel crash borsistico sul margin debt alle porte. Speriamo di no, ma le condizioni ci sono tutte.