La pubblicazione dei due principali documenti di politica economica – la Decisione di finanza pubblica (Dfp) e il Programma nazionale di riforma (Pnr) -, in effetti tre se si include l’allegato tecnico econometrico, e l’annuncio di un nuovo documento (o una serie di provvedimenti) sullo sviluppo che dovrebbe essere declinato e reso noto all’inizio di maggio hanno innescato un dibattito su due aspetti: a) i contenuti effettivi di crescita e sviluppo delle riforme catalogate (87) ed enunciate; b) il loro carattere “strutturale”.
È un dibattito che merita di essere seguito con attenzione, e anche chiarendo aspetti che ogni giorno sembrano diventare più nebulosi. Da un lato, numerosi economisti – e il sottoscritto – commentano che così come stanno le cose i due documenti promettono una crescita molto debole e non articolano nessuna vera riforma “strutturale”. Da un altro, si risponde che le riforme “strutturali” ci sono state nel passato recente – le 87 catalogate nei documento – e ce ne saranno di più nel prossimo futuro (ammodernamento del codice tributario, blocchi agli aumenti salariali nel pubblico impiego, ulteriori semplificazioni amministrative, pareggio di bilancio nel 2014 e via discorrendo).
Prima di entrare nel merito, occorre chiarire un problema terminologico che sta causando una certa confusione in quanto i termini “struttura” e “strutturale” vengono utilizzati in modo intercambiabile in riferimento sia ai meccanismi che determinano gli andamenti della finanza pubblica (o meglio la “governance” della finanza pubblica), sia i temi e i problemi attinenti alle strutture dell’economia reale, o più specificamente alla struttura di produzione.
Le riforme “strutturali” sinora attuate (le 87 elencate nei due documenti, segnatamente nel Pnr) riguardano, con poche eccezioni (specialmente nel campo della scuola e dell’università), esclusivamente la finanza pubblica. Non che non siano necessarie e meritorie; ha, indubbiamente, ragione il ministro dell’Economia e delle Finanze nel sostenere che se non si tenesse dritta la barra della finanza pubblica si correrebbe il rischio di finire come la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna.
Non tutte le misure di finanza pubblica nell’elenco sono “strutturali”, nel senso che incidono sulla struttura delle entrate e delle spese. Lo è, certamente, la nuova legge di contabilità dello Stato, specialmente se azzera “le contabilità speciali”, vera e propria piaga che non dovrebbe essere consentita in un’amministrazione statale moderna.
Non credo si possano considerare “strutturali” i blocchi triennali o anche quinquennali agli aumenti salariali o al turnover; sono misure temporanee che, prima o poi, minacciano l’esplosione della spesa su cui è stato posto un tetto. Potrà essere “strutturale”, sempre in termini di finanza pubblica, la revisione delle agevolazioni tributarie o il federalismo fiscale; prima di sostenere il loro carattere “strutturale” in termini di meccanismi e di governance delle entrate e delle spese, occorre, però, che siano definiti i punti specifici. Il diavolo, è noto, si nasconde nei dettagli.
Sinora, a ben riflettere, il dibattito ha riguardato quasi esclusivamente le strutture della finanza pubblica, non quelle dell’economia reale – ossia verso quale struttura di produzione, verso quale tipologia d’impresa, verso quale relazioni industriali e contrattazione collettiva vogliamo, o dobbiamo, andare per crescere a tassi più sostenuti di quelli, deludenti, degli ultimi quindici anni.
Se, ad esempio, si guarda ai dibattiti che ci furono in Gran Bretagna a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, il tema centrale era “strutturale” in termini di economia reale: se e come “de-industrializzare”. Alcuni temi d’economia reale sono stati sfiorati, quasi esclusivamente, però, a proposito della metalmeccanica e in rapporto al futuro degli impianti di Fiat. Un cenno interessante, ma poco più di un cenno da cui si sarebbe dovuto prendere spunto per delineare il futuro dell’economia reale. L’occasione si è ripresentata di recente a proposito dell’agroalimentare: ancora una volta, l’occasione sta sfumando in quanto ha preso il binario, secondario, dell’italianità o meno invece di quello principale del ruolo del settore nella futura struttura di produzione dell’Italia.
Indubbiamente, una finanza pubblica in ordine è la premessa per un dibattito concreto e non velleitario sulle strutture dell’economia reale e sulle riforme da realizzare per giungere a strutture più competitive delle attuali. Il dibattito sulla “governance” della finanza pubblica è solo, però, il prolegomeno . E di per stesso non sostituisce uno sullo sviluppo. Tutto ancora da iniziare.