La Fiat è più americana o, se volete, meno italiana. È questa la prima reazione, di pelle, della maggior parte degli osservatori, dei politici e dei sindacalisti di fronte al grande balzo nel capitale di Chrysler. Non c’è traccia delle manifestazioni di orgoglio che accompagnarono lo sbarco di Sergio Marchionne a Washington, giusto due anni fa quando la Fiat affrontò quella che sembrava più una mission impossible, all’insegna della reciproca disperazione che non un piano industriale credibile. Prevale, semmai, la preoccupazione per il futuro italiano della Fiat.
L’ azienda, in questi due anni, è entrata una volta per tutte nell’orbita della competizione globale, che non ammette trattamenti preferenziali di sorta. O un occhio di riguardo nei confronti delle convenienze politiche. Almeno se la controparte ha ben poco da offrire in termini di incentivi. L’Italia, a livello istituzionale, sindacale e pure economico è stata a guardare quest’accelerazione della Fiat targata Marchionne senza elaborare una reazione efficace.
Per carità, non è certo mancato il pressing mediatico contro il padrone cattivo, “reo” di essersi dimenticato gli aiuti di Stato elargiti in anni più o meno lontani. O le manifestazioni di solidarietà, vera o presunta, a favore delle tute blu. Piuttosto che le iniziative, più o meno fantasiose, per trovare un nuovo destino produttivo a fabbriche tipo Termini Imerese che nessuno, italiano, cinese o tedesco che sia, vuole rilevare. Ma non c’è stata ombra, se non rare eccezioni, del dibattito necessario sul futuro dell’impresa in questo Paese.
Eppure, come insegna il professor Gian Maria Gros-Pietro, ha poco senso interrogarsi sulla caduta di produttività del sistema Italia se non si pone rimedio alla mancanza di grandi imprese. Senza multinazionali di dimensioni adeguate, si legge nella letteratura del settore, è difficile che si sviluppi la ricerca e l’innovazione, con evidenti riflessi sul valore aggiunto delle produzioni. Senza grandi imprese, insomma, la produttività è destinata a calare. Come dimostra, purtroppo, il caso Italia dove tutti, dal sindacato al fisco per non parlare delle leggi sul lavoro, tendono a colpire la grande industria, con il risultato di indurre le imprese a non crescere di dimensione. O, addirittura (non mancano gli esempi in materia) a frazionarsi su più sigle e in più identità per non trasformarsi in un bersaglio per le controparti.
Non ha torto, al proposito, il leader della Fiom Maurizio Landini a sostenere che la sua organizzazione ha siglato numerosi accordi di settore e aziendali negli stessi mesi del muro contro muro a Pomigliano o a Mirafiori. C’è da chiedersi, però, se questo sia dovuto all’ostinazione del falco Marchionne oppure se la Fiom, ostile per principio a concedere il diciottesimo turno (quello delle lavorazioni notturne il sabato quando la domanda di mercato lo richieda) a Pomigliano o a Torino, non sia assai più comprensiva quando la controparte è una piccola o media azienda con un valore simbolico e politico assai minore della Fiat.
Si ha la sensazione che questi due anni, estremamente produttivi in Michigan, dove sono stati rimessi in funzione impianti destinati alla chiusura, siano stati sprecati in un dibattito ideologico e fine a sé stesso nel Bel Paese. Dove la classe politica non si è rivelata in grado di mettere a punto un piano credibile e non demagogico per il rilancio di territori come Termini Imerese, mentre il sindacato non è andato al di là della tentazione del ricorso all’arma della giustizia, quasi che i posti di lavoro si possano difendere o costruire a suon di sentenze come crede una certa opinione pubblica “avanzata”.
Certo, è fondata la critica sul doppio comportamento di Marchionne. Negli Usa, il manager si è impegnato a raggiungere obiettivi ben definiti nell’ambito di un progetto di rilancio da sottoporre al giudizio del mercato. In Italia, al contrario, Fabbrica Italia resta un puzzle da sistemare, in cui non si capisce l’ordine dei vari pezzi che dovranno comporre il quadro. Ma negli Stati Uniti, può obiettare Marchionne, i suoi interlocutori sapevano cosa volevano, compresi i sacrifici necessari per raggiungere l’obiettivo. Su quel piano, l’Uaw, il sindacato che ha scambiato l’impegno a non scioperare e ad accettare salari d’ingresso dimezzati per il salvataggio dell’azienda, si è dimostrata un interlocutore credibile che non ha speso un solo giorno a contestare l’accordo, una volta firmato. In Italia, non c’è stata una chiarezza paragonabile. Anzi, si è fatto a gara per demolire la credibilità dei prodotti Fiat, per “punire” l’azienda, rea di non rispondere a rapporti di forza che ormai appartengono al passato, senza affrontare il tema del lavoro che cambia, anche a costo di infrangere tabù.
Prendiamo il caso dell’ex Bertone, azienda ferma da sei (sei!) anni. Possibile che sia così difficile convincere operai in cassa integrazione da così tanto tempo ad accettare le condizioni di altri lavoratori per riprendere il lavoro? Possibile, anzi comprensibile perché, in questi anni, buona parte di questi operai ha trovato altre sistemazioni part time (naturalmente in nero) per integrare la cassa integrazione. Possibile, perché in questo lasso di tempo i lavoratori sono invecchiati, con uno stato di salute che sconsiglia l’eventuale lavoro notturno o turnazioni scomode, e con l’obiettivo della pensione a portata di mano.
Non sarebbe il caso di favorire, come a Detroit, l’innesto di forze di lavoro più giovani, magari con un salario d’ingresso a tempo determinato più competitivo? Forse non è la soluzione più equa o più efficace. Ma sarebbe il caso, almeno, di parlarne. Senza tirare in ballo la Costituzione, per favore.
Nell’attesa la Fiat va avanti per la sua strada, che è sempre meno italiana. Mica per un piano diabolico del capitale. Ma per convenienza e per necessità. Come si conviene a chi fa industria.