La stampa italiana ha trattato appena di sfuggita il recente “seminario” del G20 tenutosi a Nanchino: un breve articolo anodino nelle ultime pagine del più diffuso settimanale economico (si traeva l’impressione che si fosse trattato di turismo culturale); nulla negli altri due; neanche un cenno nei maggiori settimanali a carattere finanziario.



Grandi titoli invece nei quotidiani e periodici internazionali (ad esempio, l’International Herald Tribune) e di altri Paesi. Non solo quelli francesi, dove il Presidente Nicolas Sarkozy è stato mostrato, con il Segretario al Tesoro americano Tim Geithner e con gli esponenti di Gran Bretagna, Cina e Bric, come uno dei protagonisti del “seminario”- e aveva tutto l’interesse di mostrare “la granduer de la France” al colto e all’inclito della propria “Nation” (tematiche di questa natura sono di norma seguite da una fascia di popolazione ben istruita e a reddito medio alto). Il “seminario” è stato ampiamente trattato sulla stampa di tutto il mondo: ho di fronte a me l’ampio resoconto fattone dalla Cbs e da quotidiani come Market News, oltre che dal Wall Street Journal e Handlesblatt Anche China News, Himalaya News e Wesport News hanno dedicato servizi e commenti all’avvenimento.



Come spiegare la differente percezione degli organi di informazione italiana rispetto a quelli del resto del mondo? Indubbiamente, noi siamo alle prese con gli sbarchi a Lampedusa, le risse in Parlamento, il caso Ruby e tante altre notizie tali da destare maggiore attenzione. Ma anche all’estero, nella stessa Francia (dove si sono appena tenute le elezioni cantonali), hanno i loro problemi e ne stanno vedendo di cotte e di crude. La spiegazione si ha verosimilmente facendo ricorso a quel ramo del sapere economico chiamato “neuro-economia”, una disciplina a sé stante che cinque giorni la settimana pubblica due newsletter con abstracts di saggi di finanza (una newsletter) e di economia reale (l’altra).



In Italia si è consapevoli che a Nachino si è fatto un passo importante verso la riforma del sistema monetario internazionale, ma si è anche coscienti che si è rimasti fuori dalla “stanza giusta”- quella dove si negoziava l’intesa. Scatta, quindi, quella che chiamerei “la sindrome del Plaza”, dal nome dell’“accordo del Plaza” del 22 settembre 1985 sul riassetto dei cambi concluso tra i cinque “grandi” (Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti) in un albergo di New York, lasciando l’Italia (che pur dal 1975 aveva partecipato a tutti i supervertici della serie iniziata nel Castello di Rambouillet) fuori dalla porta, senza neanche informarla che ci fosse un appuntamento tra gli altri.

Ma cosa si è deciso a Nanchino? Non è stato redatto un nuovo trattato – non ce ne è esigenza, sotto il profilo formale -, ma su proposta francese (Parigi presiede questa tornata del G20), con il supporto degli Usa, della Germania, della Gran Bretagna e dei Bric (la stampa estera non dice se l’Italia abbia avuto una parte), è stato deciso che lo yuan o renminbi (ossia la moneta cinese) sarebbe entrata nel paniere (per ora composto da dollaro Usa, euro, yen e sterlina) sottostante i “diritti speciali di prelievo” (la moneta scritturale, ossia utilizzabile unicamente per le scritture contabili, che viene emessa dal Fondo monetario internazionale per fare fronte a crisi di liquidità). Una decisione apparentemente tecnica, ma carica di contenuto politico come le Colt dei cow boys del Far West.

Per fare parte del paniere, infatti, è essenziale che la valuta sia convertibile e flessibile e venga emessa da una banca centrale con un buon grado di autonomia. Non viene fissato un percorso con una data precisa. Tuttavia, si compie un passo importante nella riforma del sistema monetario internazionale. Sono senza dubbio possibili delle retromarce. Non apparire di essere stati parte della decisione – le apparenze anche in economia sono più importanti della realtà – implica essere stati, più o meno, le comparse del “seminario” di Nanchino. Per questo, il fantasma del Plaza si aggira a Via Venti Settembre e a Palazzo Koch. Pur se si fa di tutto per rimuoverlo.