Il primo, timido aumento dei tassi da due anni a questa parte ha un significato ben preciso: l’Europa monetaria finalmente lascia la tenda a ossigeno, in cui si è rifugiata per un paio d’anni, per entrare in una fase di convalescenza operosa.
È presto, infatti, per parlare di guarigione dai malanni della crisi peggiore degli ultimi ottant’anni: le banche del Vecchio Continente sono piene di acciacchi, vedi incagli e sofferenze; il debito pubblico è un problema un po’ per tutti, a partire dalle sciagurate terre di Grecia e Irlanda; il Portogallo, dopo un’ostinata resistenza degna di miglior causa, ha finalmente accettato l’ingresso nel reparto rianimazione.
Ma, se si guarda al panorama di un anno fa, quando le istituzioni comunitarie sembravano impotenti a gestire l’emergenza che aggrediva l’eurozona dalla periferia, la situazione appare sotto controllo, a giudicare dall’andamento dei mercati finanziari. Le tribolazioni di Lisbona e le difficoltà ormai endemiche di Atene non si traducono più in un automatico peggioramento del cds Italia. Perfino la Spagna, che si avvia ad affrontare una terapia d’urto per raddrizzare i conti delle cajas annientate dalla crisi immobiliare, non patisce più di tanto il rischio del contagio da Lisbona.
Insomma, la situazione resta seria, ma i medici, soprattutto quelli di Berlino, danno la sensazione di avere il quadro sottocchio: la terapia consiste nel tener sotto controllo i deficit nazionali assicurando, al tempo stesso, il rafforzamento delle banche cui toccherà sostenere il peso maggiore del finanziamento della cosa pubblica. In attesa, fase due, che istituzioni rafforzate e dotate dei mezzi finanziari idonei possano aggredire il problema del debito. Magari con interventi straordinari (vedi il sacrificio dei portatori dei bond sovrani, cui non sarà assicurato il rimborso integrale del credito), che potranno però essere sopportati da creditori, cioè le banche, con spalle più robuste.
L’aumento dei tassi deciso dalla Bce, ovvero l’inversione di tendenza della strategia della banca centrale, risponde più alla necessità di favorire un recupero di redditività delle aziende di credito che non a contrastare una fiammata inflazionistica, che dipende, per lo più, da fattori poco sensibili alla stretta, vedi l’aumento delle materie prime agricole o del costo dell’energia. O per raffreddare una ripresa dell’economia che, per ora, si vede solo in Germania e nei Paesi nordici più legati alla locomotiva tedesca.
In tutta Europa, a partire dall’Italia, è suonata la parola d’ordine del rafforzamento della struttura patrimoniale delle banche. È l’effetto di scelte politiche a lungo raggio, frutto degli accordi internazionali di Basilea 3, ma forse ancor di più della filosofia che sta alle spalle degli stress test in corso presso le banche sistemiche. Un esame ben diverso da quello all’acqua di rose di un anno fa. Allora si trattava di un atto dovuto, imposto dallo scetticismo dei mercati e i cui effetti furono presto vanificati dalle modalità seguite, troppo blande e del tutto inaffidabili, come dimostrò lo scoppio della crisi irlandese proprio a causa del cattivo stato di salute di istituti appena promossi.
Stavolta, al contrario, si fa sul serio. Anzi, l’effetto propedeutico già si fa sentire, visto che le banche italiane, sull’onda della moral suasion di Mario Draghi, hanno già intrapreso la strada delle operazioni sul capitale, fidando in una risposta positiva dei mercati finanziari che, al di là dei timori iniziali, già s’intravvede: se un gestore del calibro di Bill Gross di Pinco, probabilmente il maggior investitore istituzionale in obbligazioni del pianeta, si spinge a dire che sottoscriverà le azioni delle banche italiane, vuole dire che il momento scelto è quello giusto.
Naturalmente, le decisioni sui tassi non hanno solo un valore di politica monetaria interna, quando si hanno le dimensioni e il peso della Banca centrale europea. Perciò, non si può non inquadrare la scelta di Jean-Claude Trichet in un trend internazionale in un momento di passaggio assai delicato. La Bce ha deciso di anticipare le decisioni della Federal Reserve, che tra pochi mesi dovrà archiviare la fase due del Quantitative easing. Ciò rischia di sottoporre il dollaro a nuove tensioni al ribasso, già acuite dal trend di rientro dei capitali in Giappone a fronte dell’avvio della ricostruzione, dall’aumento, il sesto di fila, dei tassi cinesi e dal progressivo, seppur cauto, spostamento di capitali dal dollaro all’oro e ad altri metalli preziosi, operato dalle banche centrali di Pechino e di Mosca. O dalle scelte delle altre nuove capitali politiche ed economiche del dopo crisi: tipo il Brasile, che riscopre sull’onda del successo economico la tentazione dirigista.
Il 1° di aprile, il neo presidente, Djilma Roussef, ha licenziato senza troppi complimenti Roger Agnelli, da dieci anni leader di Vale, il colosso del ferro che fornisce la materia prima alla siderurgia cinese. È il segnale che il Brasile, avviato a diventare anche una potenza petrolifera, intende rafforzare la stretta sulle materie prime in vista di un round di confronto/conflitto economico a tutto campo, in reazione alle mosse di Washington. Il Brasile, così come la Cina, non ha affatto gradito la pioggia di dollari del Quantitative easing che per le economie emergenti ha voluto dire soprattutto inflazione e bolle speculative.
La risposta può essere una stretta dirigista sulle commodities minerarie e agricole di stampo mercantilista, cui l’Unione europea oppone una regia valutaria più prudente di quella americana, come si conviene a economie basate sull’export come quella tedesca (o anche, nel suo piccolo, italiana). La convalescenza dell’Europa, insomma, serve anche a curare la febbre del pianeta. In attesa che gli Usa s’impegnino sul serio a rimettere a posto i conti pubblici: impresa difficile in un anno preelettorale.